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Il voto per l'elezione del presidente della Repubblica

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Se si vuole una conferma che le elezioni quirinalizie sono state un test per quelle politiche future basta constatare che come accade dopo quelle tutti hanno proclamato di avere vinto. Non è proprio così e forse sarebbe giusto dire che non ha vinto nessuno, ma si è arrivati al capolinea col sistema che si era impiantato dopo il crollo della vecchia repubblica dei partiti.

Quel che pare di poter rilevare è che è andato in crisi lo schema del bipolarismo dominante: da una parte il centrodestra, dall’altro il centrosinistra. Il primo aveva orgogliosamente sostenuto che questa volta era il suo turno nel dare le carte, illudendosi di contare su una maggioranza parlamentare che sarebbe stata tenuta insieme dalla prospettiva di una sua sicura vittoria alle prossime elezioni. Questo è tutto da vedere perché è convinzione basata sui sondaggi che non solo fotografano le risposte di getto degli intervistati, ma non tengono conto di una quota molto alta che non si esprime. Comunque il corpo parlamentare non si è mostrato convinto della prospettiva e si è compattato nel proporre che per adesso si congelasse la situazione esistente.

Quanto al secondo, il centrosinistra ha offerto la prova provata della sua aleatorietà in quanto non si sa più se includa davvero un centro e cosa sia la sinistra. Difficile vedere in Conte quel famoso perno del progressismo su cui hanno vaticinato politici la cui lungimiranza è attestata solo dalla loro influenza sui media. Cosa sia poi oggi il corpaccione parlamentare dei Cinque Stelle è quasi impossibile da determinare. Quanto a LeU si è visto una volta di più che è inconsistente, un ruotino di scorta del PD che non può essere impiegato per più di qualche chilometro.

Letta lo sta capendo e bisogna riconoscere che si è mosso tenendo conto di questo quadro in evoluzione: non a caso ha riallacciato un rapporto con Renzi e altri esponenti della galassia centrista. Certo che per il PD non è facile uscire dal teorema della necessaria alleanza coi Cinque Stelle, perché altrimenti non sa come costruire una possibile coalizione di maggioranza. In più deve rapportarsi con un partito assai nervoso, con un correntismo molto sviluppato che non è riuscito a marginalizzare.

Così tutto finisce nell’affrontare il rebus della dissoluzione e ricomposizione del panorama politico. Certamente la riconferma di Mattarella dà fiducia che a dirigere il futuro traffico caotico ci sia un vigile che ha l’autorevolezza e la competenza per farlo, così come la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi fa sperare che si vada avanti con l’opera di ristrutturazione del nostro sistema amministrativo e di sostegno ad una ripresa economica che al momento registra risultati che sino a qualche mese fa si ritenevano inimmaginabili.

Proprio lo sperabile successo della seconda fase del governo Draghi avrà un peso importante sull’evoluzione della nostra crisi di sistema, perché più si afferma una politica di risultati e di ragionevolezza, più si scava la fossa sotto i piedi delle varie incarnazioni del populismo che hanno imperversato, a destra come a sinistra, negli ultimi anni. I partiti dovranno per forza tenere conto del cambio di umore dell’opinione pubblica, che si sta registrando nella soddisfazione per la riconferma di Mattarella e nel vasto consenso di cui gode il premier (e temiamo che l’invidia per questo gli abbia nociuto nella sua candidatura al Colle). Certo per ora Draghi non può scendere in campo per tentare una presenza politica in proprio (non è neppure nelle sue aspirazioni), ma il suo modo di governare imporrà degli standard a cui i partiti non potranno esimersi dal fare riferimento (e il loro personale di prima fila spesso ne è lontano).

Adesso dunque molto inizierà a muoversi. Ne è testimonianza la corsa di Salvini ad Arcore nel tentativo di salvare la sua primazia sul centrodestra lanciando l’ennesima fantasiosa invenzione (il partito federale sul modello dei repubblicani americani – non proprio in salute in questo momento). Altrettanto lo è l’inizio di manovre per la costruzione di un partito “di centro”. Siamo ancora nel vago, perché non è chiaro come si formerà, se solo con fusioni di vari partitini personali che già si muovono in quell’area (non facile visti i caratterini dei diversi soggetti), o contando su una dissoluzione di Forza Italia, forse anche su una qualche scissione nei Cinque Stelle e magari anche nel PD dove non è pacifica la convivenza con una componente “di sinistra” che sogna il ritorno del figliol prodigo di LeU e magari di qualche altro di quel tipo.

Quel che è certo è che ci vorrà ancora del tempo perché si chiarisca l’orizzonte verso cui sta marciando la politica italiana. Le transizioni, anche quelle modeste, sono processi lunghi e contorti. Figuriamoci quando si innestano come avviene oggi in una transizione globale che sta segnando un cambio d’epoca, un fenomeno che l’inattesa pandemia ha reso percepibile anche a gran parte dell’opinione pubblica.

È da sperare che lo spaesamento che comporta questa revisione generale del nostro quadro politico non si presenti adesso con la classica dinamica del pendolo come spesso accade in questi casi: dopo aver spinto da una parte col congelamento della sistemazione provvisoria che Mattarella aveva trovato giusto un anno fa, adesso si sposti dalla parte opposta tornando all’idea che si possa provare a rovesciare tutti i tavoli per impedire il consolidarsi dell’esperimento Draghi. Davvero sarebbe un bel pasticcio.

da mentepolitica.it


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