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Mario Draghi

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Come impatterà sul governo il caos dei Cinquestelle? Quali riflessi avrà sull’azione dell’esecutivo la resa dei conti in atto nel centrodestra? Come si riorganizzeranno, sempre che riescano a farlo, gli schieramenti in vista del prossimo voto amministrativo?

Sono le domande che si rincorrono nei corridoi dei Palazzi del potere. Senza riuscire a trovare risposta e così diffondendo una atmosfera di incertezza che ammorba il rapporto tra i partiti dentro e fuori la maggioranza di larghe intese.

Sono domande fondamentali non solo prive di risposta ma che neppure riescono a farsi largo nel polverone sollevato dalla crisi del bipolarismo che la corsa per il Quirinale ha squadernato e il conseguente, rinnovato protagonismo di forze “centriste” e relativi leader veri o presunti, imbattibili nel disegnare scenari ma assai meno nell’individuare percorsi dotati di concretezza.

Il risultato è che il dibattito politico appare sempre più strabico rispetto alle esigenze del Paese e l’esempio migliore è quello fornito dal confronto su una riforma elettorale con indosso i panni del proporzionale che fa fremere i partiti ma finisce per essere senza costrutto come è stato da una trentina d’anni a questa parte; praticamente dalla fine della Prima repubblica in poi. L’unico meccanismo elettorale che ha dato frutti efficaci è stata la legge Mattarella. Forse basterebbe recuperare quella per riequilibrare il sistema politico.

Resta che lo scontro su quel tipo di riforma è una mela avvelenata alla quale nessun partito sa resistere: poi una volta dato un morso, è impossibile far finta di niente. Ma è altrettanto complicato liberarsi del sortilegio, e il risultato è che si finisce per non farne nulla.

Si vedrà. L’unica cosa che in questa cornice è decisivo sostenere è che il proporzionale presuppone i partiti, i quali, al contrario, hanno assunto la consistenza di ectoplasmi. Pensare di resuscitarli con un’acrobazia di determinismo meccanicista (operazione peraltro già provata ben cinque volte negli ultimi 25 anni) minaccia di essere più che sbagliato, velleitario.

Ciò non toglie tuttavia che l’assetto più saldo ed equilibrato del sistema politico rimane una questione drammaticamente aperta. E urgente. E i rischi per la sostenibilità del sistema stesso invece di essere fugati all’indomani del bis di Mattarella, si infittiscono.

Detta in termini brutali, dopo aver impedito, in parte con motivazioni nobili in altra (più grande) parte per interessi personali e di parte, il trasloco di SuperMario al Colle, ora è in preparazione lo sfratto da palazzo Chigi.

L’ufficiale giudiziario che certificherà l’inevitabilità dell’addio sono le elezioni politiche in calendario nel marzo del 2023. Indipendentemente da quale sarà la legge con la quale si andrà alle urne – e l’inerzia lascia intendere che il Rosatellum resisterà – qualcuno vincerà e qualcun altro perderà come avrebbe ironicamente certificato lo scomparso “filosofo” Massimo Catalano ospite di riguardo di “Quelli della notte” di Renzo Arbore. È una banalità, ma si porta appresso una conseguenza importante, e cioè che dopo aver fatto esprimere milioni di italiani su leader, partiti e programmi, sarà impossibile riproporre un tecnico alla guida del governo.

Neppure se Draghi si candidasse (ma non lo farà) quel risultato sarebbe automaticamente assicurato. Se non altro per una duplice considerazione. La prima è che Sergio Mattarella si è risolto a convocare l’ex presidente della Bce al Quirinale per assegnargli l’incarico di allestire il governo in fine legislatura e quando ogni formula politica era risultata incapace di garantire la governabilità. Ad inizio legislatura, con un corpo elettorale che si è appena espresso, riproporre quella strada è quanto mai impervio.

La seconda concerne i tanti che discettano sul ”partito di Draghi” da costruire e far emergere appunto nella prossima legislatura. Costoro non possono trascurare che il vero partito, l’unico che il presidente del Consiglio accetterebbe di guidare, è quello formato dall’attuale coalizione “allargata”.

Un eventuale restringimento lo porrebbe in condizioni di minore autorevolezza e agibilità, facendolo deragliare dai binari della coesione del vasto piedistallo politico che è la sua cifra d’azione. Su questo discrimine fondamentale, giocare a rivestire i panni di apprendisti stregoni è deleterio.

E allora? Allora non resta che concentrarsi sui dodici mesi che mancano all’appuntamento elettorale. Cose da fare non ne mancano e i tanti che si affannano a dire, con un non trascurabile sospetto di strumentalità, che “Draghi deve tornare a fare Draghi”, più utilmente dovrebbero rivolgere le loro attenzioni alle forze politiche che oggi sono sotto choc ma che svolgono un ruolo insostituibile in democrazia. Legittimamente, queste forze politiche si muoveranno verso le elezioni esaltando le rispettive parole d’ordine e i temi cari al loro elettorato di riferimento. È verosimile ritenere che il capo del governo possa rimanere schiacciato da un simile processo.

Alle strette. In omaggio al suo standing di civil servant, Draghi proseguirà nell’azione di governo con la determinatezza a cui ci ha abituati e nel rispetto delle condizioni politiche che gli faranno da contorno. Non corre rischi perché nessuno vuole le elezioni. Ma il logoramento è un virus per il quale non è previsto vaccino.


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