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Maria Draghi

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Se nella stringa di Google provate a digitare “il partito di Draghi” in un millesimo di secondo vi apparirà il simbolo delle Pd. L’algoritmo a volte aiuta, altre inganna, in questo caso suggerisce una profonda verità: la barca di Palazzo Chigi è sempre più un’Arca di Noè che  si tiene a galla grazie al sostegno del Nazareno, il baricentro  che tiene in equilibrio pesi e contrappesi spostandoli ora a destra ora a sinistra.

Ma c’è un’altra verità che è ormai sotto gli occhi di tutti: intorno all’ex presidente della Banca centrale europea s’è creato un vortice, una forza centripeta. E più si avvicinano le elezioni, più cresce la spinta nell’orbita, una forza di gravità che mette insieme formazioni politiche tra loro diverse. Leader che non si piacciono, che si disprezzano, che trovano il modo di azzuffarsi anche mentre remano uno accanto all’altro per sfuggire al loro personalissimo diluvio universale.

Chiamatelo centro indistinto, nuova agorà dei moderati, rifugio dei fuoriusciti, dimora dei responsabili. Chiamatelo come vi pare ma questa nebulosa confusa è il partito di Draghi. Un partito “a sua insaputa”.   Chi lo conosce bene, infatti, sa bene che il presidente del Consiglio non ha nessuna voglia di cimentarsi in una campagna acquisti. Di tramare per farsi un partito a sua immagine e somiglianza. Non gli importa e non è quello che vuole anche perché – diciamolo – anche volendo non gli conviene.

 Avverrà tutto in automatico. E senza alcun processo di assimilazione tra reagenti che si respingono. I recalcitranti dinanzi alla crisi economica, alla guerra e alla risalita graduale ma inevitabile dei contagi dovranno farsene una ragione. O stai con SuperMario o stai contro SuperMario.  Tertium non datur.  

Basta osservarli: teorici della mezza porzione: disallineati abituati a vivacchiare nelle zone meno frequentate del Transatlantico stanno per aprire il paracadute. L’auto-mutazione di Luigi Di Maio ha aperto le danze, è il primo evidente segnale.  “Se Luigi lo ha fatto – osservava ieri alla Camera un parlamentare del suo cerchio magico – è perché ne ha già parlato non solo con Draghi ma anche chi può finanziare la  nuova creatura politica.  Non va allo sbaraglio, Luigino, sa che potrà contare su Campania, Basilicata, forse Molise e su 3-4 sindaci di un certo peso, il milanese Beppe Sala e il veneziano Luigi Brugnaro.  Ma da qui a dire “faremo il partito dei sindaci”, ce ne corre. Per fare un passo del genere servono, creare qualcosa dal nulla, un qualcosa che non sia una manovra di Palazzo, lo dico brutalmente, servono tanti soldi”.

Il baco corrosivo della scissione continuerà ad erodere deputati e senatori dei due schieramenti opposti. Chi tra i 5Stelle è al secondo mandato verrà attirato dalle sirene di una eventuale ricandidatura. Resta difficile capire però come potrà integrarsi il trio Di Maio-Calenda-Renzi.  Basterà mettere nel simbolo la scritta “per Draghi presidente” per attenuare le divisioni?  

“Con la scissione si impongono due evidenze –  ragionava ad alta voce ieri il senatore Pd Andrea Marcucci – : Letta deve fare accordi elettorali solo sulla base del programma e dobbiamo cambiare la base elettorale”.  Ma Renzi, Calenda e Conte che non saranno mai quasi amici? “Io partirei da loro e preventivamente non escluderei nessuno, chiederei anche a Conte cosa vuol fare”.

Inutile dire che il forse il primo a non saperlo, in questa fase per lui così complicata, forse è proprio l’avvocato di Volturara Appula.  Che a differenza dei forzisti di Berlusconi avrà d’ora in poi qualche difficoltà ad attingere dai due forni. Al governo per senso di responsabilità, all’opposizione per spirito di sopravvivenza.

È dunque importante cogliere le prossime incrinature interne. Quanti tra i parlamentari rimasti con Giuseppe Conte accetteranno la mezza porzione e resteranno fedeli ad un capo che si è disegnato i caporali del comando a mano da solo. “Fare adesso il dibattito sul centro –  scuote la testa Matteo Renzi – è surreale, quello che accadrà nelle prossime settimane saranno chiacchiere  da ombrellone totalmente inutili. Gli schieramenti dipendono dalla legge elettorale che secondo me non cambia, anche se io vorrei il modello del sindaco d’Italia dove sono i cittadini a scegliere chi li governa. Personalmente – rivendica il leader di Italia Viva – sono stato determinante per almeno 3 governi, nello stop a Di Maio, Salvini e Conte”. E visto che si rischia di pescare nello stesso stagno ecco la dose quotidiana riservata a Calenda che “cambia idea 3 volte al giorno, io l’ho fatto ministro, ambasciatore a Bruxelles e sostenuto a sindaco quando si candidò a Roma. Lui voleva andare a elezioni al tempo del Papeete: il Covid e la guerra Russo-Ucraina le avrebbero gestite Salvini premier e Meloni vice”.

Tra diversamente draghiani e leader dimezzati funziona così. Micro-interessi, migrazioni continue, rifiuto categorico di utilizzare un dizionario comune. In questo magma emotivo  prende forma il partito che ancora non c’è. Un partito invisibile che ha un solo punto in comune: SuperMario.  Finché un giorno, all’improvviso, magari nell’imminenza del voto, si capirà che in certi momenti sarebbe stato meglio fare fronte comune.  Il finale non è affatto scontato. “Lasciate fare al tempo – diceva Eraclito – è nel divenire che le cose si riposano”.   


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