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Matteo Salvini in aula al Senato

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La storia si ripete, ma la tragedia si trasforma in farsa. C’è “qualcosa di antico’’ nello sfascio della legislatura a cui abbiamo assistito. Nella mattinata di giovedì 6 dicembre 2012 i lavori della Camera erano sospesi in attesa di votare la fiducia, nel pomeriggio, per il decreto sui costi della politica, presentato dal governo di Mario Monti.

Io, deputato del popolo della Libertà nella XVI legislatura, partecipavo ad un incontro con una delegazione di parlamentari del Togo, quando, le agenzie di stampa prima, una telefonata, poi, mi informavano di ciò che stava succedendo al Senato, come reazione del Pdl alle considerazioni svolte poche ore prima dal ministro Corrado Passera a proposito dell’orientamento di Silvio Berlusconi di essere di nuovo in campo.

Più tardi, a casa, grazie ai tg, aveva ricostruito quanto era avvenuto. Il Pdl si era astenuto per protesta pur assicurando il mantenimento del numero legale allo scopo di consentire all’Assemblea di approvare il provvedimento all’esame. Allora mi era sembrato ovvio che qualche strappo fosse prevedibile, poco dopo, anche a Montecitorio. A inizio seduta avevamo ricevuto il consueto sms nel quale venivamo invitati ad astenerci.

“La politica ha sue regole – mi ero detto – anche a noi deputati viene chiesto di tenere il punto”. Nelle loro dichiarazioni di voto gli esponenti degli altri partiti ci avevano sommersi di critiche, fino a quando non prese la parola il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Fin dalle prime battute mi resi subito conto che si stava preparando qualche cosa di ben più grave. Cicchitto, infatti, liquidò con una battuta il caso Passera (definendolo <untorello>) per passare poi a presentare il voto di astensione come una modifica di carattere generale della collocazione del Pdl nei confronti dell’esecutivo derivante da una critica alla sua linea di condotta in particolare nell’economia. Per sostenere questa posizione Cicchitto andò a rinvangare quasi tutte le occasioni di conflitto emerse nell’anno precedente, dimenticando che, su ciascuna di esse, una composizione più o meno brillante era stata in seguito raggiunta. Non ci volle molto a capire che – mentre al Senato i capi gruppo avevano avuto il buon senso di circoscrivere la rottura ad un caso specifico, recuperabile con un atto di scuse da parte del ministro Passera – alla Camera si era andati ben oltre, fino al rischio di aprire una crisi di governo.  E così decisi di votare a favore in dissenso dal gruppo, come ho continuato a fare. Il giorno dopo, nel voto finale, Angelino Alfano arrivò persino a staccare la spina al governo, accusandolo di essere responsabile di un peggioramento complessivo dell’economia del Paese (per fortuna si era ricordato di includere tra i motivi di dissenso anche il voto all’Onu a favore della Palestina, il solo evento meritevole di una dura presa di distanza).

Gli avvenimenti successivi sono noti. Ricordo che allora scrissi: “In cinquant’anni di vita politica raramente mi è capitato di assistere ad errori così gravi’’. Tanto che uscii dal gruppo e trascorsi gli ultimi mesi di attività parlamentare (si andò alle elezioni anticipate) in quello misto a Montecitorio. Ieri mi sono reso conto che quando il centro destra deve assumere delle decisioni importanti, non ha la statura adeguata per poterlo fare. E, purtroppo, come nel dicembre 2012, il protagonista di questo voltafaccia, nell’ambito del centro destra, è ancora una volta Silvio Berlusconi, il quale evidentemente ha scelto la strada delle elezioni anticipate. Mario Draghi al mattino ha svolto al Senato delle comunicazioni di grande spessore politico. E ha dimostrato – cosa di cui si dubitava – che era disposto a continuare nella attività di governo. Ha messo i partiti, il Parlamento davanti alle loro responsabilità ripercorrendo, una per una, le varie occasioni di conflitto sollevate, come bandierine, dalle forze politiche della coalizione. 

Nello stesso tempo ha fornito risposte ragionevoli su tutti i punti contenuti nelle agende dei diversi partiti. Ed ha stigmatizzato – chiamando per nome i protagonisti – i ribellismi emergenti da settori della società civile (taxisti, balneari, cittadini di Piombino, ecc.) protetti di volta in volta da alcune componenti della stessa maggioranza. I paragoni non sono sempre azzeccati; ma a chi scrive il discorso di Draghi di ieri, mi ha ricordato quello di Giorgio Napolitano quando venne rieletto al Quirinale. In quell’occasione però il Parlamento dimostrò maggiore consapevolezza dei suoi limiti riconoscendosi nelle critiche del Presidente.

Ieri, abbiamo avuto l’impressione, seguendo i lavori del Senato, che la reazione dei partiti sia stata quella del risentimento per dei richiami alla responsabilità che sembravano troppo onerosi. Poi la sorpresa. Come afferma il tenente Innocenzi nel film “Tutti a casa’’ (Luigi Comencini, 1960) a commento dei fatti dell’8 settembre 1943. “I tedeschi si sono alleati con gli americani’’.  Ha colto il paradosso della mossa del centro destra (con la risoluzione Calderoli sottoscritta da tutti i capigruppo della destra di governo, il governatore della Liguria Giovanni Toti: “Conte – ha scritto su twitter – combina il più epico guaio della storia recente. Ma il centrodestra di governo, geloso, gli ruba in corner, davanti agli italiani, la responsabilità di far cadere il governo Draghi! Ma davvero stiamo assistendo a tutto questo?”.

Si è così. Si dice che i topi siano i primi a scendere da un battello prossimo al naufragio. Ieri, i topi del centro destra hanno fatto di tutto per salire a bordo e prendere posto tra coloro che stavano affondando la nave del governo. Negli ultimi giorni dal 14 luglio ad oggi i pentastellati sono stati ricoperti di accuse di irresponsabilità, derisi, giudicati dilettanti inaffidabili, incapaci persino di spiegare i motivi delle loro iniziative, incendiari inconsapevoli, personaggi in cerca d’autore, scappati di casa e quant’altro. Poi è arrivato il D Day, il giorno in cui i “grillini’’ sono chiamati – come imputati – a dire il grande Si o il grande No, ma all’improvviso si accorgono che il lavoro sporco lo stanno facendo altri partiti.  Ci hanno pensato Salvini e soci a mettere Draghi con le spalle al muro. Ma il premier li ha bloccati con una astuta tattica parlamentare, imponendo – con la fiducia – la votazione sulla mozione Casini e costringendoli alla uscita dall’Aula come dei pentastellati qualsiasi.  Nessuno si è preso la briga di rispondere alla domanda di Draghi: “I partiti e voi parlamentari siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto’’.

Se Conte avesse avuto un po’ di sense of humor avrebbe invitato i senatori del suo “rito’’ a intervenire elogiando il discorso del premier e a ritenersi soddisfatti delle risposte ottenute. Così il cerino acceso sarebbe restato in mano al centrodestra. Ma il M5S non poteva sottrarsi all’ultimo momento al gioco perverso che aveva iniziato il 14 luglio. La capogruppo Maria Domenica Castellone sembrava una persona che si lamentava con il partner per un amore finito male, rimproverandogli le disattenzioni, i maltrattamenti e le incomprensioni. In sostanza, un discorso centrato sulla difesa della dignità della sua forza politica, rivendicando al movimento di aver contribuito alla salvezza del Paese attraverso la partecipazione ai due governi presieduti da Conte, i cui meriti Draghi si era dimenticato di riconoscere. Quando si è consapevoli – vale per la destra di governo come per i “grillini’’ – di non avere argomenti plausibili, resta solo la fuga. 


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