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Silvio Berlusconi

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La pendola della campagna elettorale è già partita con un ticchettio sinistro. I giudici di gara sono pronti, ma i partecipanti alla corsa non si sono ancora appostati sulla linea di partenza. Sembra di assistere al “via’’ del Palio di Siena, quando si attende che i cavalli si sistemino tutto dietro il cordolo.

I purosangue sono nervosi, scapitano, sono infastiditi dai cavalli vicini e dai fantini che cavalcano a pelo. Nel nostro caso, poi, di purosangue in lizza ce ne sono pochi, anche se qualcuno (è il caso di Carlo Calenda) vanta antenati illustri e si sente pronto a vincere il Gran Premio. Il Patto repubblicano è, per ora, la sola alleanza definita e certificata, anche se somiglia ad un fortino in cui gli occupanti non danno l’impressione di volersi difendere ma di cercare di isolarsi come all’interno di un eremo.

Poi, “s’ode a destra uno squillo di tromba’’, mentre a sinistra non risponde ancora uno squillo. Giuseppe Conte, in poche ore, non si è limitato solo a far cadere il governo Draghi, ma ha cambiato la destinazione d’uso quel “campo largo’’ del quale non si era mai occupato seriamente. Così, l’investimento di carattere immobiliare che intendeva compiere Enrico Letta è andato a ramengo.

La direzione del Pd ha approvato ieri una relazione del segretario dai toni apocalittici: “Mai come in queste elezioni, credo dal ’48 ad oggi, il voto italiano sarà così determinante sugli equilibri europei. Il pareggio – ha affermato Letta – non è contemplato in questa legge elettorale e sappiamo che con questa legge e in questa Europa, o vince l’Europa comunitaria del Next generation Eu, dell’Erasmus e della speranza, oppure vince l’Europa di Orban, Vox e Marine Le Pen. Non ci sono terze opzioni”, è stato l’affondo del segretario del PD. Sembra di capire che i dem non prenderanno in considerazione le profferte “amorose’’ del M5s, nonostante l’insistenza di Conte, salvo che in determinate elezioni regionali e locali in conseguenza delle specifiche leggi previste.

Il che potrebbe indurre qualche domanda maliziosa (ma Letta è un uomo d’onore); visto che un terzo dei parlamentari, il 25 settembre, sarà eletto nei collegi uninominali, nei quali il centro destra si presenterà in modo compatto. Sempre che i leader della coalizione siano in grado di trovare un accordo per un’equa spartizione dei seggi e un criterio per attribuire lo scettro del comando, con annesso l’ingresso a Palazzo Chigi. È in corso nella coalizione una competizione che non si limita a qualche calcio sferrato sotto il tavolo, ma diventa sempre più palese ogni giorno. Ma è troppo importante la posta in gioco per non ritenere che alla fine prevarranno considerazioni utilitaristiche: il pacchetto di voti attribuiti a FdI è troppo consistente per correre di rischi. Intanto, fino a prova contraria, le destra sta ridando il peggio di sé per quanto riguarda le linee programmatiche: si torna a parlare della sicurezza, della sacralità dei confini senza rendersi conto che per incutere nell’opinione pubblica quell’ostilità che nel 2018 portò fortuna alla Lega, occorre reinventarla, perché la gente – a torto o a ragione – ha altre preoccupazioni.

Il Cav gioca le carte che gli hanno portato fortuna: le pensioni minime a mille euro mensili; poi, sicuramente, inventerà nei prossimi giorni qualche cabala sulla casa. È plausibile, invece, che la sinistra in questa campagna elettorale cada nell’errore di lanciare una crociata antifascista. Si rifiutò con ostinazione di toccare questo tasto dopo il 2018, quando il pericolo era reale, perché le forze che diedero vita al governo giallo-verde predicavano apertamente l’abbandono della moneta unica (ricordate i minibot?), il conflitto con la Ue, il disprezzo delle regole, la ricerca di nuovi sbocchi nella politica estera. Le ricadute sono sempre possibili: oggi, però, è più difficile tornare apertamente a quelle nefande dottrine, mentre è in corso un importante piano di finanziamento pensato in larga misura per sistemare le nostre finanze e la nostra economia.

E la Commissione di Bruxelles ha argomenti ben più diretti e persuasivi della apertura di una procedura di sanzione (che, pure, nel 2018 convinse il Conte 1 a fare marcia indietro e a scendere dal balcone di Palazzo Chigi). Poi è mutata la situazione internazionale, dopo la guerra in Ucraina: è divenuto molto più difficile svincolarsi da una scelta di campo netta. E il paradosso è che a destra, le maggiori garanzie di fedeltà occidentale le fornisce Giorgia Meloni. Si può mettere in discussione anche i fondamentali della nostra storia contemporanea; di sicuro non verranno i marines, come temeva il Pci dopo il 1948. Basterebbe la sanzione dei mercati per mandare a gambe all’aria un Paese, incaprettato da un debito pubblico come il nostro. A sinistra nei prossimi giorni dovranno anche chiarire cosa intendono per “agenda Draghi’’.

Nelle comunicazioni in Senato del 20 luglio, il premier ha illustrato una piattaforma ragionevole in grado di smentire il cicaleccio di chi si è accorto che Mario Draghi era un banchiere. Una sinistra riformista può e deve riconoscersi in quelle linee. Ricordino i ducetti a sinistra del Pd il caso della Grecia: Alexīs Tsipras  il leader di SYRIZA, fu salutato alla stregua del “nuovo che avanza’’ di colui che voleva portare avanti una politica alternativa rispetto alla prassi del rigore e dei bilanci in pareggio. I “sinistrorsi’’ di tutta Europa, in prima fila quelli italiani, erano di casa ad Atene. Ma il loro beniamino si trovò nel giro di pochi mesi in braccio alla Trojka; fino a riconsegnare nelle elezioni successive il Paese alla destra.  


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