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Giorgia Meloni

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È il seme della follia o la stoffa del leader? La domanda sorge spontanea dopo aver ascoltato Giorgia Meloni confermare baldanzosa, nel corso della conferenza stampa di fine anno, che il presidenzialismo, per lei, «è una priorità».

La presidente del Consiglio sta a palazzo Chigi da soli 70 giorni e già mette sul piatto le riforme istituzionali? L’argomento può essere letale: di solito – lo abbiamo visto nella recente storia repubblicana – chi tocca i fili delle riforme muore. Politicamente, si intende.

L’ultimo tentativo di modificare la Costituzione nel senso di un rafforzamento dell’esecutivo risale al 2016. L’iniziativa la presero Matteo Renzi e Maria Elena Boschi. E sappiamo com’è finita. L’allora segretario del Pd investì totalmente sul progetto, ma fu l’inizio della sua fine. Tutti gli oppositori, soprattutto quelli interni, colsero l’occasione per disarcionarlo. Aiutati, per dirla tutta, dagli errori di conduzione della campagna referendaria compiuti dallo stesso Renzi.

LA CHANCE SPRECATA

Tuttavia, il proposito di concludere finalmente la lunga transizione italiana, cominciata prima di Tangentopoli con i primi tentativi di riforma elettorale e di riforme di sistema, era ed è corretto. Nel 1991 e nel 1993 si svolsero quei referendum elettorali che favorirono il passaggio di fatto dalla Prima alla Seconda Repubblica. Via il proporzionale, spazio al maggioritario e al bipolarismo.

L’analisi era che l’Italia soffriva di instabilità politica e inefficienza istituzionale: governi deboli e di breve durata, sottomessi ai veti e ai ricatti dei singoli partiti, incapaci di dare un seguito ai programmi elettorali e inefficaci nell’attuazione delle politiche pubbliche.

In più, il sistema era bloccato. Da un lato, c’era la Dc che funzionava da perno permanente di ogni governo e, tutt’intorno, gli alleati delle coalizioni che si davano il cambio. Dall’altro, c’era il Pci che non poteva governare, vista la sua affiliazione all’universo comunista guidato dall’Unione Sovietica: l’Italia stava saldamente nel blocco atlantico.

I partiti di quel tempo avevano trovato anche un modo per convivere in questo stallo: il consociativismo occulto e spartitorio con il quale si alimentava, da un lato, la rappresentazione del conflitto ideologico, mentre, dall’altro, si condivideva una gigantesca redistribuzione di risorse pubbliche. Il risultato finale è stato quell’enorme debito pubblico che, a partire dalla metà degli anni 80 del secolo scorso, ancora grava sull’Italia del 21° secolo.

Nei primi anni 90, l’elezione diretta del sindaco ha introdotto un primo e definitivo elemento di verticalizzazione delle leadership istituzionali insieme a una maggiore stabilità dei governi locali. Tuttavia, il sistema politico nazionale, che pure ha goduto di una nuova democrazia dell’alternanza, non è mai riuscito a fare tesoro di questa novità, per causa soprattutto delle resistenze dei partiti che hanno continuato a preferire il controllo delle loro filiere al migliore rendimento dell’azione di governo.

L’INCOGNITA PD

Ovviamente, i tentativi di riforma non sono mancati. Tra questi, le famigerate bicamerali il cui lavoro si risolse in un nulla di fatto: la prima fu guidata da Aldo Bozzi (1983-85), poi toccò a Nilde Iotti e Ciriaco De Mita (1993-94), infine a Massimo D’Alema (1997-98).

Nella conferenza stampa di fine anno, Giorgia Meloni ha sottinteso un vago riferimento proprio all’ultima bicamerale guidata dall’ex leader dei Ds. Da quella bicamerale emerse per la prima volta una proposta di modifica della forma di governo in chiave semipresidenziale, prendendo come esempio il caso francese. Ma, com’è noto, le proposte della Bicamerale D’Alema finirono al macero per il voltafaccia di Silvio Berlusconi.

Citando quella esperienza, Meloni vuole ricordare che, tutto sommato, una disponibilità della sinistra a realizzare la riforma in senso semipresidenziale era già stata manifestata allora e potrebbe costituire quindi un buon viatico per l’iniziativa che il governo si accinge a rilanciare l’anno prossimo.

Dai tempi di D’Alema, però, le cose sono molto cambiate. Nel 2016 – estremo paradosso – il Partito democratico (ispirato proprio dalle trame di D’Alema) fu il principale killer del progetto di riforma promosso dal suo stesso segretario. Oggi il Pd, che per storia e numeri dovrebbe rappresentare il principale interlocutore dell’opposizione nel processo di riforma, è all’apice di una crisi di identità che coinvolge anche scelte fondamentali come quelle che riguardano la riforma della Costituzione. In più, soffre la concorrenza a sinistra del M5s, con il rischio di appiattirsi sul conservatorismo intransigente dei grillini sul tema del rafforzamento dell’esecutivo. Ne sapremo di più dopo il congresso, quando la scelta tra Bonaccini e Schlein aiuterà a fare chiarezza anche su questo punto.

IL BIVIO PERICOLOSO

Nel frattempo, Meloni potrebbe muoversi su un doppio binario. Da una parte, l’iniziativa della ministra competente, Elisabetta Alberti Casellati, che a gennaio dovrebbe avviare un processo di consultazione delle forze di maggioranza e di opposizione per costruire la proposta del governo.

Dall’altra parte, secondo i rumors raccolti da La Stampa, la Meloni potrebbe anche spingere per l’istituzione di una commissione bicamerale con 15 o 20 parlamentari al massimo, sotto la guida di Marcello Pera (già presidente del Senato con Forza Italia e oggi di nuovo a Palazzo Madama con Fratelli d’Italia), con l’obiettivo di lavorare per un paio d’anni sul progetto.

Entrambe le opzioni sono scivolose. L’iniziativa diretta del governo rischia di scatenare l’opposizione pregiudiziale delle sinistre, ma anche di stuzzicare l’ostilità di Lega e Forza Italia. Gli junior partner del governo soffrono la vocazione maggioritaria del partito di Meloni e potrebbero temere che una riforma in senso semipresidenziale darebbe all’attuale premier lo scettro del centrodestra in modo permanente.

Per contro, i lavori di una commissione parlamentare, per quanto risicata nella composizione, potrebbero essere segnati proprio da quegli «atteggiamenti dilatori» che Meloni ha già previsto e stigmatizzato in conferenza stampa e che ha già promesso di bypassare nel caso si presentassero.

LA FORMULA FRANCESE PUÒ ALLETTARE IL TERZO POLO

In ogni caso, la premier ha ragione nel sostenere che «possa fare bene all’Italia una riforma che consenta di avere stabilità e governi frutto dell’indicazione popolare». La storia della Repubblica è lì a dimostrarlo. In più, sappiamo già quanto è necessario un governo stabile e autorevole nel momento in cui l’Italia va a Bruxelles per tutelare i propri interessi e indirizzare l’azione dell’Unione europea.

Allo stesso modo, è apprezzabile anche l’apertura al semipresidenzialismo francese. «Non è il mio sistema preferito», dice Meloni, ma può dare ottimi risultati di sistema e raccogliere consensi più ampi. E, perché no, può anche stabilizzare la sua leadership nella maggioranza di governo.

Proprio sul semipresidenzialismo francese la premier potrà contare sulla disponibilità del Terzo Polo. Di sicuro, per Matteo Renzi sarebbe l’occasione per raggiungere gli stessi obiettivi che erano iscritti nella riforma Boschi del 2016, poi sconfitta nel referendum. Ma, soprattutto, il modello francese sarebbe l’occasione per il Terzo Polo di sfidare il Pd sull’egemonia del centrosinistra, con la speranza di ripetere in Italia l’exploit di En Marche e la consunzione del Partito socialista francese.


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