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Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente ungherese Viktor Orban

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«Viktor, ascolta, perché non esci a prenderti un caffè, così noi possiamo votare l’avvio dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione?». Così, più o meno, secondo la ricostruzione di Politico.eu, il cancelliere tedesco Olaf Scholz avrebbe convinto il riluttante premier ungherese a permettere un importante passo avanti al Consiglio europeo.

Questa è la metà buona del summit, storica se vogliamo. L’altra metà è decisamente peggio, perché dopo il caffè amaro, probabilmente amarissimo, Orban ha invece impedito che i Ventisette dessero il via libera al pacchetto di aiuti da oltre 50 miliardi di euro all’Ucraina e senza i quali il Paese aggredito dalla Russia quasi due anni fa rischierebbe il default.

IL REGALO DI ORBAN A PUTIN

Il miglior amico di Putin all’interno della Ue è così riuscito a fare a Mosca un regalo prezioso. Il leader del Cremlino, che in questa guerra ingaggiata contro l’Occidente ha dalla sua il fattore tempo, ne ha guadagnato ancora di più. Kiev sostiene un conflitto in cui sta esaurendo uomini e munizioni, mentre la controffensiva non ha prodotto risultati. Gli aiuti europei non sono stati deliberati e in più quelli Usa sono nel limbo creato dall’ostruzionismo repubblicano al Congresso.

Alle incertezze sul campo si aggiungono quelle economiche, poiché le risorse promesse dalla Ue servono, nell’arco di un quadriennio, a tenere in piedi le funzioni vitali dello Stato ucraino.
Iniziare l’anno senza questa prospettiva rende ancora più precario il futuro di Kiev, anche se da Bruxelles è arrivato l’atteso via libera all’inizio dei negoziati per l’adesione, un ancoraggio politico del quale il presidente Volodymyr Zelensky, la cui leadership è decisamente appannata, aveva un disperato bisogno.

L’Unione europea sempre più geopolitica, voluta fortemente dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ha quindi battuto un colpo importante aprendo le porte dell’allargamento a Est non solo all’Ucraina, ma anche alla Moldavia. Bruxelles ha in realtà sempre voluto essere un polo d’attrazione per questa parte d’Europa che il 1989 e il 1991 hanno strappato alla sfera d’influenza dell’allora Unione Sovietica. Questa dimensione geopolitica in realtà le è propria da tempo, almeno dal 2004, quando fu creata la European Neighbourhood Policy contestualmente al primo grande allargamento a Est, il big bang con cui accolse in un colpo solo 10 nuovi Stati membri.

IL PROCESSO DI ADESIONE

E fu il perseguimento di questa politica di vicinato a creare le condizioni perché nel 2013 l’Unione e l’Ucraina fossero pronte a firmare un accordo di associazione. Sappiamo bene come andò a finire (tragicamente) e come a lungo le aspirazioni europee di Kiev furono soffocate dalla guerra nel Donbass e dall’annessione russa della Crimea. Oggi, almeno, queste aspirazioni sono tornate a essere protagoniste per l’Ucraina e decisive per la futura articolazione istituzionale dell’Europa.

L’adesione è un processo lungo e faticoso, dove si perdono per strada molto presto i pezzi del romanticismo e dell’entusiasmo che hanno animato il suo avvio. Lo sa molto bene Viktor Orban, che infatti ha promesso ostruzionismo in merito poiché continua a considerare l’Ucraina impreparata per questa fase.

L’apertura e la chiusura di ognuno dei 35 capitoli negoziali devono essere autorizzate da tutti e 27 gli Stati membri, mentre sull’adesione vera e propria ci sono i paletti costituzionali di alcuni Stati: in Francia, per esempio, deve essere approvata tramite referendum popolare o da una maggioranza di tre quinti di entrambi i rami del Parlamento.

LE RISERVE ALL’INGRESSO NELL’UE

Ci sono poi le riserve, finora inespresse, dei singoli Paesi membri, soprattutto di quelli che con l’ingresso di un Paese così grande vedrebbero drasticamente ridotte le risorse finanziarie dell’Unione. L’agricoltura sarà senz’altro uno dei temi più delicati, poiché la Ue, che dispone di terreni coltivati per 157 milioni di ettari, con la sola Ucraina ne avrebbe 41 milioni in più.

Il prolungarsi del conflitto, con la Russia di Putin che si è strutturata per una guerra di logoramento e un’economia bellica, renderanno ancora più difficile il percorso di avvicinamento di Kiev a Bruxelles, agli standard dell’Unione. La scelta geopolitica, il salto in avanti, si scontra con ostacoli senza precedenti nonostante il volontarismo di parte della classe dirigente europea.

Uno di questi ostacoli è senza dubbio l’attuale governance, disfunzionale già per una Ue a 27, figuriamoci a 35. C’è una proposta informale franco-tedesca che punta su una revisione del meccanismo di voto, che attualmente per le questioni di politica estera richiede l’unanimità. L’idea è di passare alla maggioranza qualificata, con correttivi parziali da applicare a vantaggio dei Paesi più piccoli, proprio per superare i veti e i ricatti “alla Orban”.

IL FRONTE PRO-KIEV

Su questo il premier ungherese darà sicuramente battaglia, forte del fatto che, per approvare modifiche di un simile tenore, sarà necessario un voto unanime in sede di Consiglio Ue. Estremamente positiva è l’esistenza di un fronte comune, anche sul piano progettuale, tra Francia e Germania, mentre è apprezzabile la recente conversione di Parigi alla causa dell’allargamento a Est e, in generale, nei confronti dei Paesi dell’Europa Centro-orientale, delle loro sensibilità.

In questo senso il summit di Bruxelles ha visto il ritorno di un capo di governo polacco europeista, il premier Donald Tusk, già buon presidente del Consiglio Ue e subito chiaro nell’affermare il pieno sostegno di Varsavia alle aspirazioni di Kiev e alla guerra contro Mosca.

Viktor Orban ha perso un prezioso e importante alleato e il suo senso di isolamento non potrà che crescere nei prossimi anni. A confortarlo, però, potrebbero arrivare successi indesiderati dei partiti di estrema destra in Europa, sempre pronti a cavalcare l’onda populista anti-allargamento e il timore che l’arrivo di altri Paesi più poveri si traduca in una riduzione dei benefici e una tendenza al dumping salariale.


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