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Una libreria

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Quando accade qualcosa di inatteso, che mina la stabilità nazionale, spesso si chiama in causa la cultura, riproponendo il classico luogo comune per cui “la cultura ci salverà”. Appare tuttavia discutibile la decisione del Governo, in un momento tanto delicato, di riaprire le librerie. Si è sicuramente trattato di una scelta simbolica e che come tale è stata percepita, così che questa presa di posizione voleva avere anche l’intenzione di fungere da collante sociale, che facesse appello alla sensibilità dei cittadini. Per cui, piuttosto che allentare la presa su altri tipi di attività commerciali, si è pensato di procedere in questa direzione, predisponendo la riapertura.

Non sembra però che si sia tenuto conto della specificità delle situazioni regionali, così come delle differenze demografiche dei contesti sociali nei quali applicare questa deroga – andando da sé che un conto è una libreria di provincia, un conto è una libreria nel centro di Milano. Nella situazione che stiamo vivendo, uno scenario in cui interminabili file di persone corrono in libreria, incapaci di attendere fino alla fase due per potersi procurare chissà quale testo, appariva da principio quantomeno improbabile.

Eppure si è ritenuto che questo potesse essere un gesto importante; al Paese ne serviva uno, anche per rincuorare i cittadini che da mesi vivono una situazione pesante. Ci si è mostrati cautamente diffidenti verso altri problemi, come quello della salute dei più piccoli (chiusi in casa come tutti da inizio marzo) ritenendo che allentare le misure per i bambini avrebbe potuto costituire un rischio per la stabilità nazionale, nell’eventualità che alcuni genitori potessero approfittarne. Essendo stata più volte sottolineata una situazione epidemiologica ancora tanto delicata, così come la necessità di maggiore accortezza in questa fase – per evitare di tornare ai livelli di criticità iniziali –  la scelta di riapertura delle librerie non acquisisce spessore, ma appare ancor più un gesto imprudente. Sicuramente, è tranquillizzante constatare che per ora non sono stati riscontrati problemi nell’applicazione della deroga. Rimane tuttavia che, quello che si voleva fosse un segnale forte, sembra piuttosto aver palesato l’inadeguatezza nazionale a produrre simboli collettivi sensati ed innovativi.

Non si è stati in grado di andare oltre la trita concezione della cultura intesa come “cibo dell’anima”, dimostrando l’incapacità, da parte di un paese che è tra gli ultimi in Europa per il numero di lettori, di fare appello a quei bei valori che si vorrebbero ricercare tra le pagine dei romanzi. Questo tipo di retorica reitera una convenzionale esaltazione della cultura che rischia di divenire piuttosto sua strumentalizzazione a fini autocelebrativi o di propaganda. Spesso, pare infatti che la cultura sia esaltata solo quando in grado di plasmarsi a sufficienza nella direzione in cui la si nobilita da un punto di vista mediatico, conformemente ad una visione culturale che considera la lettura, le arti, come aspetti privi di immediato valore pratico. La cultura viene maggiormente considerata quando la si può utilizzare per ottenere un profitto, che sia economico o piuttosto serva a conferire uno status intellettualmente rilevante a chi vi approccia. Questo, agli occhi di chi di cultura si occupa con cognizione di causa, appare mortificante. Chi sceglie di lavorare in ambito culturale intraprende una carriera in un campo che spesso viene svalutato, perché considerato poco pratico. Eppure, non appena la si può utilizzare a fini propagandistici, quella medesima sfera appare come l’unica in grado di risollevare l’Italia dalle sue sventurate sorti nazionali. 

Quando si parla di valorizzare la cultura, ci si dimentica troppo spesso che alla cultura andrebbe riconosciuto valore intrinseco, più che di mercato. La cultura, in senso lato, ha una componente necessariamente adattativa, quindi situata e contestualizzata anche sul proprio tempo e sulle necessità che ne conseguono. In un momento così tragico della nostra storia nazionale, riaprire le librerie non era una necessità e soprattutto era un rischio. Una cultura “di posa”, strumentale, non ha nulla di culturale. Confondere la cultura con l’attività di un esercizio che la veicola, come le librerie, diviene problematico qualora le due cose vengano fatte coincidere. Si potrebbe utilizzare questo tempo per cominciare ad avviare un dibattito sulla cultura – quella vera –  nelle sue tante sfaccettature e possibilità di professionalizzazione, creando così una rete di interessi comuni che vadano però riconvertiti in concrete proposte di valorizzazione. Semmai, nella speranza che queste possano essere indicatori di cambiamento sociale positivo e non più simboli stantii.


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