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LA PRIMA italiana che andò ai Giochi Olimpici per partecipare, ci andò a cavallo: era il 1900, in un maggio francese. La signora aveva 45 anni e nella dolce vita di Parigi era una “celebrity”, una vip come si direbbe oggi, nella città che era il cuore di quel tempo conosciuto poi come “Belle Epoque”.

Erano gli anni in cui al Moulin Rouge, aperto da poco, impazzavano artisti come Joseph Pujol, detto Le Pétomane, Il Petomane, un ex panettiere di Marsiglia che aveva un totale controllo dei propri muscoli addominali che gli permetteva di emettere flatulenze a piacimento, suo e del pubblico: erano sonorità che facevano il verso al rombo del cannone o al temporale ma che potevano anche riprodurre “motivetti” musicali, come “’O sole mio” o perfino “La Marsigliese”. Mise su uno spettacolo itinerante che si chiamava Théatre Pompadour, in onore della famosa Madame.

Un’altra celebrità del momento era Jacques Renaudin, in arte Valentin le Desossé, Valentino il Disossato, un contorsionista che si esibiva nel ballo, spesso in coppia con “La Goulue”, La Golosa, quale era conosciuta la ballerina Louise Josephine Weber che inventò il can can e che, all’inizio della strepitosa carriera, di giorno faceva la lavandaia, il mestiere di sua madre, o la modella per i pittori, e di notte si dedicava al ballo. Fu la protagonista dei manifesti che Toulouse-Lautrec dipinse per il Moulin Rouge nel quale Valentin le Desossé si esibì, da solo o con la Goulue, 83.112 volte, con una preferenza per il valzer che danzò, dicono, 39.962 volte. Le spaccate e le gambe all’aria attiravano nel locale di Pigalle, il quartiere più peccaminoso della Parigi di allora, anche re e governanti in visita. Ne erano frequentatori il giovane poeta Apollinaire che aveva vent’anni nel 1900, e il vecchio pittore Renoir, che ne aveva 60, Braque che con Picasso iniziò il cubismo e Aristide Bruant, lo chansonnier più noto di allora.

Tra le danzatrici che spopolavano si ricordano Jane Avril, la ballerina solista che indossava i mutandoni rossi mentre quelle del gruppo li portavano bianchi,  e che rubò i pennelli di Toulouse-Lautrec alla Goulue, Mome Fromage, la ballerina più “curvy” del Moulin Rouge, e Nini Pattes en l’Air, nomignolo di facile comprensione, essendo le pattes le zampe.

In questa cafè society godereccia e spensierata si muoveva, a cavallo, Elvira Guerra, la signora in questione: era un’artista circense, una cavallerizza che montava all’amazzone, cioè seduta sulla sella costruita apposta per le donne, le gambe penzoloni da un lato dell’animale. Di Elvira Guerra aveva scritto, in una recensione del 27 dicembre 1882 (Natale è tradizionalmente un periodo d’oro per i circhi e i loro botteghini) il Times raccontando lo spettacolo a Londra e parlando de “i poteri tersicorei del bel cavallo Sylvan mirabilmente controllato da Miss Elvira Guerra”. Forse la signora ne conservava orgogliosamente il ritaglio. Elvira aveva saputo di quella stranezza dei Giochi Olimpici che accompagnavano l’Esposizione Universale di Parigi nell’anno 1900 e delle gare di equitazione che a fine maggio si sarebbero svolte in quel contesto, nella Place de Bréteuil, debitamente attrezzata, tra il 7° e il 15° arrondissement. Aveva anche saputo che per la prima volta nella storia sportiva le donne sarebbero state ammesse alla partecipazione, anche se l’inventore, o meglio il re-inventore, dei Giochi, il barone Pierre de Coubertin, era un misogino sportivo che giudicava assolutamente “antiestetica” la pratica sportiva per il gentil sesso e “soprattutto impropria” ritenendo che la parte da riservare alle signore nelle competizioni fosse semplicemente quella di “glorificare i vincitori con il proprio applauso” (ha scritto proprio così…).

Nonostante il nobiliare anatema, Elvira decise di partecipare alla gara dei “chevaux de selle”, i cavalli impegnati al trotto e al galoppo, una specie di dréssage che non fu più ripetuto alle Olimpiadi. Del resto non fu più ripetuta nell’equitazione neppure la presenza femminile, almeno fino al 1952, ad Helsinki, quando le donne furono ammesse nella disciplina del dréssage, al 1956 a Stoccolma, la dépendence equestre dei Giochi di Melbourne dove i cavalli non si recarono per non dover affrontare le rigide norme della quarantena australiana, nel salto ostacoli, ed al 1964 a Tokyo per il concorso completo. Elvira Guerra si iscrisse con il suo cavallo Libertin e sfidò senza paura gli ufficiali di cavalleria di tutto il mondo, i francesi e gli inglesi e pure un russo emissario dello Zar, il conte Polyakoff. Le donne in gara erano due su 21 concorrenti, l’altra era la francese Moulin della quale non si conosce che il cognome e non si sa neppure come (né se) si piazzò nella classifica finale. La Guerra arrivò nona. La medaglia d’oro fu vinta da Louis Napoléon Murat, principe di Napoli per essere il nipote diretto di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte, la sorella di Napoleone: nella distribuzione dei troni europei ai suoi cari, Napoleone aveva destinato alla coppia Murat quello di Napoli.

Con una ironia della storia, il cavallo che fu compagno del principe Murat si chiama “The General”, il generale, il grado militare di competenza di Bonaparte prima di farsi imperatore. Anche il terzo arrivato, il conte di Montesquiou, aveva un’ascendenza degna di memoria: la sua famiglia era quella di D’Artagnan. Se era una delle due donne partecipanti a questa specifica competizione, l’amazzone italiana era anche una delle ventidue rappresentanti dello sport femminile a Parigi 1900: gli uomini erano, invece, 997.  Era l’inizio del lungo cammino per la gender equality in campo: a Tokyo 2020 si è arrivati quasi al 50 per cento giacché su 11.483 partecipanti 5.985 erano uomini e 5.498 donne, compresa la transgender, la prima di sempre, la sollevatrice di pesi neozelandese Laurel Hubbard.

Elvira era nata a San Pietroburgo, figlia dell’artista circense Rodolfo Guerra, impegnato come cavallerizzo nel Cirque Olympique che il di lui fratello, Alessandro Guerra, uno dei più celebri in quell’arte, aveva fondato prima a Mosca e poi nella città degli Zar. Lo zio Alessandro era detto “Il Furioso” per via del carattere piuttosto suscettibile; aveva inventato un numero che lo vedeva in piedi su di una pariglia di cavalli, un piede sulla groppa di uno e l’altro su quella di un altro e tenere le redini lunghe di altri sei o otto cavalli che guidava a sfilare tra i due sui quali si reggeva in acrobazia, magari suonando magistralmente il flauto o il violino o la chitarra. Il numero si chiamava “cavalcata romana” in onore della città dove Alessandro era nato nel 1782. O forse nel 1790.

Elvira era del 1855 e morì a Marsiglia nel 1937, dimenticata quasi da tutti ma non dalla città di Bordeaux che le ha dedicato una via, grata degli spettacoli che Elvira lì aveva dato. “Alessandro Guerra, nei ludi equestri sommo, sempre invidiato né mai vinto in sua maestria, fra tutte genti civili del globo visse anni LXXX. Alla salma di lui chiusa in questo marmo tributano lacrime e fiori la vedova, le figlie, gli amici”, è invece la perenne memoria dello zio sulla lapide posta sul suo sepolcro alla Certosa di Bologna, nella Galleria a Tre Navate.


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