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Nell’agosto 2013 l’Oxford English Dictionary includeva per la prima volta la parola “selfie”, ovvero «una fotografia di sé stessi, tipicamente ripresa con uno smartphone o una webcam e caricata su un social network».

Nell’ottobre dell’anno successivo il termine veniva introdotto anche nel vocabolario Zingarelli, anche se nelle nostre vite, il selfie, era entrato già molto prima, con l’avvento dei social network. I selfie ormai sono un’abitudine entrata nel nostro quotidiano. Ma quando il rapporto con i social diventa esasperato e il desiderio di attrarre l’attenzione e guadagnare like spinge a ignorare ogni rischio e a mettere a repentaglio la vita per realizzare scatti che possano generare interesse sui social, allora siamo di fronte al Killfie, il selfie scattato in situazioni estreme che diventa fatale. Il neologismo nasce dalla crasi del verbo to kill, uccidere con la parola selfie e rappresenta un fenomeno sempre più diffuso nel mondo, soprattutto tra i giovanissimi, e che dopo il lockdown ha registrato un’impennata.

Se il selfie è quell’immagine da pubblicare online che ci coglie nella nostra vita quotidiana e che dovrebbe raccontare di noi agli altri, il killfie è la sua espressione paradossale, l’esigenza di mostrarci dotati di qualità straordinarie: più coraggiosi degli altri, più originali, dotati di una vita più interessante. Pur di ottenere quello scatto perfetto, capace di ottenere lo stupore e l’ammirazione altrui, ecco che si sottovalutano i rischi.

Precipitati, investiti da treni in arrivo, sbranati da animali troppo vicini. Così si muore con killfie. Solo un mese fa in Lussemburgo, una donna di 33 anni, si è sporta eccessivamente per scattarsi una foto da un belvedere ed è precipitata con un volo di 30 metri nel fiume sottostante annegando, sotto lo sguardo impotente del marito. A luglio sull’Appennino tosco-emiliano è toccato a Andrea Cimbali, 29 anni: voleva immortalarsi con uno scorcio montano spettacolare, durante un’escursione, ma è precipitato nel vuoto per 200 metri e a nulla è servito il pronto intervento degli operatori del soccorso alpino e dell’elisoccorso. Lo scorso settembre in Zimbabwe, un uomo è stato calpestato da un elefante mentre cercava di scattarsi una foto accanto al pachiderma. L’uomo è morto, e anche l’elefante, giustiziato dai ranger.

Le statistiche parlano chiaro: sono quasi 380, a partire dal 2008, le persone decedute mentre si scattavano un selfie in condizioni estreme.

È quanto emerge da uno studio spagnolo della iO Foundation. In base alla ricerca, sono almeno 379 le persone morte accidentalmente nel mondo tra il gennaio del 2008 e il luglio del 2021. Solamente dall’inizio del 2021 si sono verificati 31 incidenti mortali di questo tipo, con una chiara tendenza al rialzo. Un esame della casistica mostra che la maggior parte dei decessi (216) è dovuta a cadute, mentre le altre cause di morte sono legate ai mezzi di trasporto (incidenti stradali, incidenti ferroviari, ecc.) e ad annegamento.

C’è poi un numero non irrilevante di incidenti dovuti ad un uso improprio di armi da fuoco (24), scariche elettriche e ad attacchi di animali selvatici (17). I dati sono comunque al ribasso. Per la realizzazione dello studio infatti, i ricercatori hanno tenuto conto solo degli episodi riportati dalla stampa a partire dal 2008, escludendo di fatto tutti quelle morti in cui non è stata individuata la causa killer nel selfie e quelli che non sono balzati agli onori della cronaca. La ricerca rileva inoltre che in un caso su tre il protagonista dell’incidente mortale era in viaggio. Mete esotiche scelte magari proprio perché instagrammabili, come si dice oggi per definire le mete gettonate perché particolarmente adatte ad essere immortalate sui social. Nella classifica dei Paesi dove si sono verificati il maggior numero di incidenti l’India è al primo posto con 100 morti dal 2008. Seguono gli Stati Uniti (39) e la Russia (33). «I dati per l’India si spiegano in parte con il fatto che molte persone nel Paese si fanno selfie mentre si sporgono dal finestrino o dalla porta dei treni», ha spiegato Cristina Juesas, una delle cofirmatarie dello studio. Juesas ha sottolineato che dai dati emerge chiaramente che i più esposti al rischio di incidenti sono i giovani, l’età media delle vittime si aggira infatti intorno ai 24 anni. Nel complesso, tra i decessi, il 41% sono sotto i 19 anni.

Ma non è tutto: le morti per autoscatti in situazioni rischiose sono addirittura triplicate dalla fine del lockdown.

Lo mette in evidenza un altro studio effettuato da una società di consulenza inglese il Rhino Safety che valuta il rischio e la sicurezza in vari ambiti. Se nel 2020 i decessi dovuti al tentativo di scattare un selfie in circostanze estreme sono stati sette, nei primi mesi del 2021 il numero sale a quota 24. Secondo i dati raccolti dalla Rhino Safety, al primo posto tra le cause principali si collocano le cadute, responsabili di un terzo degli incidenti mortali totali. Al secondo posto, gli annegamenti, causa della morte di un quinto delle vittime. Le statistiche fanno un bilancio anche in base al sesso: gli uomini sembrano avere una tendenza notevolmente maggiore al rischio: (64%) rispetto alle donne (30%).

Simon Walter, direttore del Rhino Safety, nel far emergere l’aumento delle vittime per selfie incauti successivo al lockdown, mette in guardia sui rischi dovuti dalla somma di due fattori: l’allentamento delle misure restrittive contro il Covid e il timore di essere tenuti fuori dal flusso di informazioni che scorre lungo le homepage dei social (FOMO o fear of missing out). «Mentre le piattaforme di social media possono essere luoghi sorprendenti per costruire connessioni con le persone in tutto il mondo, la pressione per distinguersi può spingere le persone a correre rischi per creare contenuti ‘emozionanti’ che possono, purtroppo, trasformarsi in tragedie», ha dichiarato il direttore del Rhino Safety. «È importante, ora più che mai, riflettere sui rischi che siamo disposti a correre, e se vale davvero la pena di perdere la vita per un selfie», conclude Walter.

In Italia il fenomeno dei selfie killer è finito sotto la lente di ingrandimento anche dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha analizzato i dati degli incidenti, tra cui quelli mortali a causa di autoscatti in situazioni estreme in cui erano coinvolti i più giovani, andando ad analizzarne le cause. Secondo i dati dell’Osservatorio circa l’8% degli adolescenti è stato sfidato a fare un selfie estremo e 1 su 10 ha fatto un autoscatto mettendo a rischio la propria incolumità, per dimostrare il proprio coraggio. La percentuale sale nei più piccoli, dagli 11 ai 13 anni, raggiungendo il 12%.

«Stiamo assistendo ad un numero sempre più in crescita di adolescenti che si fanno del male pur di scattare un selfie estremo, un’immagine al limite, arrivare dove gli altri non hanno il coraggio di arrivare e dimostrare al pubblico dei social ciò che si è riusciti a fare. In un certo senso, lo fanno per rinforzare il proprio ruolo social e sociale, dimostrare a se stessi il proprio valore, senza capire realmente la gravità di certe condotte e che si rischia anche di morire: da qui il nome di selfie killer». spiega la psicologa Maura Manca, Presidente Osservatorio Nazionale Adolescenza. Uno scatto inquietante, il suo, sugli effetti nefasti della corsa ad apparire sui social.


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