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UN PAESE per giorni a ferro e fuoco, che ripropone per le strade quanto già visto anche nel recentissimo passato. Quando a scendere in piazza, però, era il dissenso contro riforme politiche strettamente attinenti al tessuto lavorativo. Stavolta no. La Francia si trova costretta a fare realmente i conti con sé stessa piuttosto che con il suo dna rivoluzionario. Con la sensazione, strisciante e inquietante, che gli enormi agglomerati periferici possano trasformarsi in luoghi franchi, dove un’alternativa alla strada e al senso di estraneità rispetto al resto del Paese possa semplicemente non esistere. O, ancora peggio, che tale condizione sia quella già percepita da chi vi abita.

Perché gli effetti del caso Nahel hanno oltrepassato quel confine per cui la rivolta possa essere derubricata come dissenso, rendendo intuibile, se non addirittura evidente, come le cause dell’improvvisa avanzata delle banlieue vadano ricercate ben oltre la tragedia di Nanterre del 27 giugno scorso. Probabilmente proprio in quei luoghi in cui la logica urbanistica sfocia da troppo tempo e in maniera incontrollata nel rischio di ghettizzazione del futuro. Perché nelle periferie francesi, i concetti tradizionalmente legati ai medesimi luoghi delle grandi città sembrano esasperarsi, creando contesti di turbolenza, insoddisfazione, quasi alienazione. Di sicuro, un disagio che fatica maledettamente a fornire ai ragazzi gli strumenti giusti per salire sul famigerato ascensore sociale. Il quale, già di per sé, costituisce quasi più un limite che un mezzo. E se il parametro di misurazione reale delle criticità sociali è la scuola, ecco che nelle banlieue francesi emerge il primo dei dati allarmanti.

Perché, secondo i dati Ocse, per i ragazzi e le ragazze di estrazione popolare, condurre una buona carriera scolastica è di per sé estremamente più complicato e non sempre per la scarsa propensione degli studenti alle regole imposte dal percorso educativo. Spesso, infatti, la penalizzazione sembra emergere proprio nel sistema scolastico, che finisce per manifestarsi con più forza tra coloro che, già in partenza, hanno palesato difficoltà di inserimento legate alla lingua (o comunque a contesti strettamente connessi all’immigrazione). Ne deriva un tasso di abbandono scolastico tra i più elevati, caratteristica peraltro comune nell’ambito dei nuclei familiari economicamente e socialmente più svantaggiati. Significativo, in questo senso, il rapporto di Save the Children “Alla ricerca del tempo perduto” che, tra il 2019 e il 2022, segnalava, per quel che riguarda l’Italia, non solo un aumento del rischio di abbandono scolastico ma, al contempo, un progressivo deficit di competenze minime nei diplomati, spesso insufficienti per accedere alle università o, semplicemente, al mondo del lavoro. Dati che, se traslati nel vivere quotidiano, portano tali contesti sociali a prestare il fianco a fenomeni gravi, quali la formazione di gang o l’incremento del tasso di inoccupazione.

Storicamente, il senso di insoddisfazione tende a trasformarsi in rabbia sociale. Specie se non vi fosse la percezione di una minima prossimità tra quartiere e autorità centrale. In questo senso, la distanza diventa il pretesto per lo sfogo qualora se ne presenti l’occasione. In Francia accadde – più o meno secondo la stessa evoluzione di eventi – nel 2005, quando la morte di due adolescenti (fulminati in una cabina telefonica dove, secondo una versione mai del tutto chiarita, si sarebbero rifugiati per sfuggire a un inseguimento da parte della Polizia) scatenò fuoco e fiamme nelle banlieue, inizialmente a Parigi e, successivamente, in altre città del Paese. Anche in quel caso, gli scenari furono simili: negozi presi d’assalto, auto bruciate e arresti a centinaia, con tanto di dichiarazione dello stato di emergenza.

Un episodio topico – anche se non l’unico -, abbastanza esemplificativo del clima sociale portato dalla condensazione delle problematiche tipiche delle classi più svantaggiate nell’ambito di enormi agglomerati urbani. Lo stesso contesto che, se da un lato provoca svantaggi ulteriori come appunto la povertà educativa, dall’altro non consentirebbe l’emersione di eccellenze o, quantomeno, le stesse possibilità di edificazione culturale o lavorativa. Del resto, a pensarci bene, anche il termine stesso “banlieue” tende verso interpretazioni escludenti, potendo essere letto in modo letterale come “luoghi al bando” piuttosto che con un più generico significato di “periferia”.

Nonostante questo, almeno per quel che riguarda i dati europei, il fenomeno non sembra incidere sui rilevamenti statistici. Anzi, sulla base dei dati forniti dall’Istat, tra i Paesi del vecchio Continente maggiormente soggetti ad abbandono scolastico figura l’Italia, con un’incidenza pari al 12,7%. Una percentuale da leggere soprattutto per quel che riguarda i “Neet”, ossia ragazzi con meno di 24 anni che non studiano né lavorano, perlopiù residenti nelle zone centro-meridionali del nostro Paese. Contesti e modelli forse diversi ma che, in qualche modo, raccontano la stessa emergenza: la persistenza di una cesura tra le aree di maggior sviluppo e quelle più indietro nella costruzione di un tessuto sociale più resistente. E, allo stesso, la difficoltà nella costruzione di ponti. Figurarsi di ascensori…


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