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RINFORZARE il corpo docenti della scuola italiana. Un obiettivo che passerà (anche) dal maxi-concorso del 2024 che, stando al bando, inserirà a regime non meno di 30 mila nuovi docenti, secondo le logiche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) e per quel che riguarda tutti i gradi di istruzione, dall’Infanzia fino alle scuole secondarie di primo e secondo grado. Anche se, forse, il termine “nuovi” non è del tutto esatto, visto che tra i requisiti figura un’occupazione continuativa per almeno tre anni negli ultimi cinque presso gli istituti scolastici. E non manca qualche punto-beffa, come l’estensione dei 24 cfu a 60 qualora, per chi ha già ottenuto la certificazione, il concorso in arrivo (scadenza delle domande fissata al 9 gennaio 2024) non dovesse andar bene.

A ogni modo, non è solo questione di preparazione. Come sempre, l’immissione di nuove risorse nel corpo docenti della scuola dovrà fare i conti con la realtà dei fatti, che vede il persistere di uno squilibrio territoriale che nemmeno un tema cardine della società, come l’istruzione scolastica, riesce a scrollarsi di dosso. Accade così che, al netto della bontà del concorsone in arrivo, la disparità tra Nord e Sud rischia di essere addirittura acuita piuttosto che assottigliata, e questo in base alle stesse regole previste di distribuzione delle risorse a livello logistico.

Un esempio su tutti riguarda l’insegnamento dell’Italiano, o comunque le materie rientranti nella classe di concorso A22, per le scuole medie. Un range importante, da quasi 3 mila posti, perlopiù concentrati nelle Regioni settentrionali. Anzi, quasi tutti concentrati lì, visto che si parla di 2.046 posti, mentre nella scuola della Sicilia non si arriverà nemmeno a 100 docenti. Tale numero, peraltro, sarà quello complessivo riservato al Molise, da coprire con 102 posti in tutto, con appena 4 insegnanti di sostegno in più previsti al termine del concorso.

Un disavanzo che, chiaramente, allarga il gap con la parte “alta” del nostro Paese, anche se l’inserimento delle nuove risorse tiene conto di dati basilari, quali il numero degli istituti presenti e quello degli allievi. Appare chiaro, però, che a prove terminate gli equilibri rischiano di non essersi spostati più di tanto. Forse, al Sud, andrà meglio nelle scuole per l’infanzia, visto che il 43% dei posti riguarderà proprio gli istituti meridionali (contro il circa 35% riservato al Nord). Abissale, però, il distacco per quel che riguarda i posti di sostegno, con un impari 471 a 44 (sempre in termini di posti) a favore delle Regioni settentrionali. Peraltro, a fronte di un “vantaggio” sul posto comune per l’infanzia, è chiaro che questo significherà (o dovrebbe significare) un potenziamento anche in termini strutturali e di accoglienza, al fine di evitare il rischio di sovrabbondanza in un settore piuttosto che in un altro.

In questa direzione dovrebbe agire l’Agenda Sud, che prevede uno stanziamento da 13 milioni di euro per l’impiego di 450 insegnanti in più nelle scuole pubbliche, da inserire in un parterre di istituti selezionati che, una volta individuati, riceveranno incarichi di insegnamento temporanei tramite finanziamento specifico alla direzione scolastica. Anche in questo senso, tuttavia, rischia di esserci qualche disparità. Nei prossimi giorni, infatti, i cedolini salariali dei docenti dovrebbero essere incrementati, in virtù del taglio al cuneo fiscale decretato con un’immissione di risorse pari a circa 14 miliardi di euro destinati al comparto scolastico. Risultato: buste paga più pesanti per tutti i docenti, a prescindere dal territorio di impiego. Con l’accortezza, però, di proporzionare gli introiti al costo della vita, con l’evidente rischio, anzi, quasi la certezza, di favorire chi lavora in determinate Regioni. E, soprattutto, scoraggiando gli insegnanti fuori sede al ritorno nel proprio territorio d’origine, in questo caso il reimpiego al Sud a fronte di un posto ottenuto al Nord.

Una polemica piuttosto vivace nei giorni scorsi, specie dopo l’emersione di un adeguamento della misura di aumento degli stipendi in modo limitato alle Regioni in cui, in modo oggettivo, la vita risulta più cara. Variabile che aveva portato i sindacati a intervenire, parlando di “gabbie salariali” e rischio concreto di un beneficio a metà, arrivando persino a indicare vie alternative all’appesantimento delle buste paga, quali benefit e indennità. In sostanza, piuttosto che adeguare i salari solo dove, teoricamente, ce ne sarebbe più bisogno, mantenendo però inalterati i costi della vita, puntare su misure di welfare. Anche perché, e anche questo è oggettivo, in alcune zone d’Italia, a fronte di costi complessivi meno esosi, le condizioni di insegnamento risultano altrettanto difficili e, per questo, bisognose di risorse a disposizione. Senza contare che – e questo ha in effetti trascinato la polemica sul piano politico – non equiparare i territori in termini di salari significherebbe, secondo gli oppositori, strizzare l’occhio all’autonomia differenziata. E, di conseguenza, al dislivello sociale permanente, persino nel campo dell’istruzione.


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