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Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato

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ARMI chimiche, ovvero la linea rossa da non oltrepassare nella guerra fra Russia e Ucraina. La Nato, sul punto, è stata chiarissima: il ricorso a bombe e proiettili non convenzionali da parte di Mosca cambierebbe, ha detto il segretario generale Jens Stoltenberg, «la natura del conflitto», autorizzando un maggior impegno dell’Alleanza. Che potrebbe tradursi in un intervento diretto e, quindi, nell’escalation definitiva tra potenze nucleari. Soprattutto per tutelare i Paesi Nato che confinano con l’Ucraina, i quali potrebbero risultare coinvolti dagli effetti di un eventuale attacco chimico.

I timori sul ricorso ad armi chimiche esistono sin dai primi giorni dell’operazione militare ordinata da Vladimir Putin ma nell’ultima settimana se ne è parlato con maggior frequenza, specie dopo che il sindaco di Irpin, Aleksander Markushin, ha accusato il nemico di aver usato «bombe al fosforo, vietate dalla Convenzione di Ginevra». Affermazione in parte inesatta quella del primo cittadino ucraino; la Convenzione, infatti, classifica quelle al fosforo come “armi incendiare” e non chimiche. Di conseguenza il loro utilizzo non è vietato in toto ma è comunque limitato a “obiettivi militari”.

Insomma il fosforo non può essere usato per colpire aree civili o zone la cui distruzione coinvolgerebbe anche la popolazione inerme. Questo perché il suo impatto è devastante: l’anidride fosforica reagisce con le superfici contenenti acqua, fra cui ci sono anche i tessuti dell’organismo. All’esterno provoca gravissime lesioni cutanee e danni agli occhi, se inalata distrugge gli organi dall’interno. Fra gli agenti chimici quelli più letali sono i nervini. I loro effetti coinvolgono direttamente il sistema nervoso, portando alla contrazione involontaria di tutti i muscoli, alla paralisi, all’arresto cardiorespiratorio e alla morte.

L’attentato alla vita di Sergei Skripal – ex agente del Kgb trasferitosi nel Regno Unito e considerato da Mosca un doppiogiochista – secondo le indagini è stato eseguito ricorrendo al gas Novichok, prodotto in Unione Sovietica e poi in Russia tra il 1970 e il 1993. L’individuazione della sostanza ha portato (in Occidente) a quella del presunto mandante, la stessa Federazione. Accuse che il Cremlino ha sempre rispedito al mittente, come ha fatto – successivamente – dopo l’avvelenamento dell’attivista di opposizione Aleksei Navalny, avvenuto sempre con il Novichok. Fra gli agenti nervini rientra anche il gas Sarin che, stando a un’inchiesta Onu, il regime di Bashar al Assad (fra i maggiori alleati di Putin) avrebbe usato in due attacchi – Ghuta (2013) e Khan Shaykhun (2017) – durante la guerra civile siriana, provocando la morte (secondo le stime peggiori) di circa 2mila persone. I nervini non esauriscono il ventaglio di armi chimiche, suddivisibili tra soffocanti (come cloro e cloropicrina), blister (mostarda di zolfo o di azoto) e agenti del sangue (cianuro e cloruro di cianogeno).

Capitolo a parte meritano le armi batteriologiche, il cui impiego – fra l’altro – non è finalizzato meramente a logiche di sterminio. Fino al 1992 migliaia di scienziati russi avrebbero, infatti, lavorato alla realizzazione di agenti biologici in grado di distruggere gli allevamenti e le culture di un Paese. Ma quali di questi strumenti di morte e devastazione possiede Mosca? Impossibile saperlo. La Russia, formalmente, ha aderito all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e, come conseguenza, ha dichiarato di averne distrutte circa 40mila tonnellate risalenti al tempo dell’Urss. Ma funzionari di Usa e Nato ritengono che, sottobanco, la produzione di tali armi da parte della Federazione non si sia mai interrotta.

E mentre la Russia accusa l’Ucraina di aver fatto uso di ammoniaca durante gli scontri resta la paura che nei combattimenti possano risultare danneggiati laboratori dove vengono conservati agenti patogeni potenzialmente letali. Stessi timori riguardano le centrali nucleari, che se colpite potrebbero scatenare incidenti paragonabili a quello di Chernobyl o Fukushima.

Per questo il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, ha lanciato un appello affinché «Russia e Ucraina firmino un accordo di regole di condotta sul comportamento bellico nei pressi di impianti di energia nucleare per evitare una potenziale catastrofe per il continente intero».


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