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Macerie per il conflitto tra Israele e Hamas

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L’IRAN ha chiesto a tutti i paesi arabi l’embargo del petrolio per Israele in guerra. Lo ha fatto per bocca dell’ayatollah Khamenei, attuale guida suprema del Paese, il massimo esponente del fondamentalismo sciita di Teheran. Ha chiamato tutto il mondo musulmano alla mobilitazione per bloccare l’afflusso di forniture energetiche e, ha specificato, anche di cibo, per colpire la cooperazione che iniziava a profilarsi tra Israele e una parte del mondo arabo. Lo ha fatto mentre il prezzo del petrolio greggio continua a salire sui mercati internazionali, chiedendo che cessi la guerra a Gaza seguiti al pogrom di Hamas del 7 ottobre scorso. Un terzo delle esportazioni di petrolio provengono da quella regione e l’Iea, Agenzia Internazionale dell’Energia, teme che possa verificarsi un nuovo shock petrolifero.

Una richiesta, quella iraniana, fatta a cinquant’anni esatti dalla crisi energetica del 1973, conseguenza della guerra del Kippur, quando Egitto e Siria attaccarono Israele, perdendo poi militarmente il conflitto. In quell’occasione i paesi arabi associati all’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, decisero di sostenere l’azione di guerra di Egitto e Siria tramite ingenti aumenti del prezzo del barile e l’embargo nei confronti dei paesi ritenuti filo-israeliani. La conseguenza fu un’impennata dei prezzi e l’interruzione del flusso dell’approvvigionamento di petrolio verso le nazioni importatrici. Quell’embargo, secondo gli economisti, pose fine al ciclo di sviluppo economico che aveva caratterizzato l’Occidente negli anni cinquanta e sessanta. Questa volta però l’Opec ha scelto la prudenza e tace, senza prendere al momento posizione sulla richiesta dell’Iran. Ma resta sul tavolo la questione dell’embargo, uno strumento che di fatto è assimilabile alla guerra, come sa bene l’autocrate russo Vladimir Putin, che dopo aver invaso l’Ucraina è alle prese con l’embargo posto nei suoi confronti dall’Unione Europea: dal 4 giugno scorso, infatti, l’Unione Europea ha rafforzato il divieto, scattato nel febbraio 2022, di acquistare, importare o trasferire, direttamente o indirettamente, petrolio greggio o prodotti petroliferi da Mosca. I risultati di questa decisione sono controversi.

Per l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Josep Borrell le sanzioni stanno già avendo un forte impatto sull’economia russa e sulla capacità del Cremlino di finanziare le sue aggressioni. Per molti osservatori internazionali, al contrario, i ricavi delle vendita di greggio e gas provenienti da Mosca sono aumentati, anche a causa dei prezzi aumentati dopo l’embargo. Le sanzioni vengono puntualmente aggirate e lo sforzo europeo si concentra sempre di più verso le misure per colpire i soggetti che le violano.

Se l’intento degli embarghi è quello di arrecare danno alle economie dei paesi verso cui vengono applicati, non si può dire che questo sia stato il risultato sempre raggiunto da tale misura. Per quanto riguarda Israele, le sue fonti di approvvigionamento di greggio, spiega un rapporto di Standard&Poor’s citato dal giornalista economico Claudio Paudice, provengono proprio dalla Russia, beffa della geopolitica, oltre che da Azerbaigian, area del Kurdistan dell’Iraq, Stati Uniti, Angola e Nigeria. Ma la minaccia dell’Iran non è stata lanciata soltanto a scopo propagandistico. In una chiave di tensione sempre crescente tra l’occidente e il regime degli ayatollah, a essere colpiti dal ventilato embargo petrolifero potrebbero essere i Paesi che appoggiano politicamente e militarmente Israele, provocando un’estensione del conflitto al di fuori dei confini israelo-palestinesi. La lezione dell’embargo petrolifero del 1973 utilizzato dai produttori arabi è stata imparata molto bene dagli Stati Uniti e dal blocco occidentale, che da allora l’hanno utilizzata a loro volta, bloccando prodotti non petroliferi ma di prima necessità, soprattutto beni alimentari e altre materie prime, verso molti altri paesi produttori di petrolio. Dall’Iran all’Iraq di Saddam Hussein alla Libia di Gheddafi al Venezuela di Chavez e Maduro, destabilizzandone in alcuni casi i regimi. Non sembra invece aver funzionato, come abbiamo visto, verso la Russia di Putin.

L’embargo assume quindi la forma di una vera e propria arma di guerra anche quando non si spara. E’ il caso di Cuba, messa in ginocchio economicamente da un embargo degli Stati Uniti che dura dal 1961, senza che il potere di Fidel Castro e poi del fratello Raul venisse mai scalfito. Il 2 novembre scorso l’Onu ha votato per la trentesima volta negli ultimi cinquant’anni la fine dell’embargo. Le uniche mani alzate per il no sono state quelle di Usa e Israele. Gli embarghi colpiscono in prevalenza le popolazioni, molto più dei regimi che si mettono nel mirino. Haiti, Angola, Ruanda, Somalia, Sudan, Libia, Libano, Iraq, Iran, Afghanistan, Corea del Nord, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Liberia, Repubblica democratica del Congo. In questi Paesi, dove le sanzioni economiche declinate in modi diversi, sono state decise dal Consiglio di sicurezza economica dell’Onu, la maggior parte degli abitanti continua a vivere con due dollari al giorno mentre i regimi dispotici sono rimasti ben saldi al potere. Gli embarghi non funzionano, se non in pochi casi, a causa della possibilità degli Stati colpiti di rivolgersi a nuovi partner commerciali aggirando le sanzioni imposte dalla comunità internazionale. Un caso specifico è quello delle armi, da quelle leggere, facili da nascondere, a quelle pesanti, che giungono nei Paesi colpiti da embargo tramite triangolazioni commerciali.

Lo stesso petrolio russo d’altronde, ha svelato senza essere smentito il quotidiano tedesco Welt am Sonntag, arriva nei porti europei come Rotterdam o Anversa, dopo essere stato “ripulito”, ovvero raffinato, in paesi come Turchia, Emirati Arabi Uniti e India, per poi essere rivenduto a Stati Uniti e Unione Europea. La minaccia iraniana di embargo petrolifero contro Israele, che come abbiamo visto non ne sarebbe danneggiata più di tanto, pone quindi una questione molto più complessa e pericolosa, perché si rivolge ai suoi alleati. Porterebbe la guerra in corso tra Israele e Hamas al di fuori dei confini mediorientali, creando una connessione dagli esiti imprevedibili con la guerra in Ucraina, che coinvolge un altro importante paese produttore di petrolio come la Russia. Il 20 settembre scorso, il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu è stato accolto a Teheran con tutti gli onori. Si è intrattenuto a lungo con il comandante della forza aerospaziale delle Guardie rivoluzionarie Amirali Hajizadeh, tra droni, missili e sistemi di difesa aerea iraniani.

Una delegazione di Hamas guidata da Moussa Abu Marzouk si è invece recata a Mosca il 26 ottobre scorso, incontrando il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov e il Vice Ministro degli Esteri Mikhail Bogdanov. Era presente nella capitale russa anche il viceministro degli Esteri dell’Iran Ali Bagheri Kani. Nonostante sia chiara la formazione di un nuovo blocco politico di contrapposizione all’occidente, che sostituisce quello sovietico della Guerra fredda,Vladimir Putin per il momento mantiene rapporti diplomatici anche con Israele. Fino a quando dipende da quanto avverrà nella striscia di Gaza nei prossimi giorni e mesi.


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