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Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu

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IL CONFLITTO in Medio Oriente sta ridisegnando la geopolitica internazionale, a cominciare dalla inaspettata decisione d’Israele di presentarsi questa settimana dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, le udienze saranno pubbliche, per rispondere delle accuse di genocidio verso i palestinesi mosse dal Sudafrica a Netanyahu. Una decisione dietro cui si nasconde in realtà, come fanno trapelare alcuni alti funzionari israeliani ai giornalisti, l’intenzione, più che di difendersi, di denunciare il fronte dei paesi che vogliono la distruzione dello Stato ebraico, con l’Iran in testa. In ogni caso il Tribunale non ha strumenti per rendere esecutive le sue decisioni. Anche militarmente la guerra si svolge ormai oltre i confini israeliani.

Il gruppo di estremisti islamici Houthi dello Yemen, sostenuto dall’Iran, lancia quasi ogni giorno attacchi con missili, droni e via mare su navi commerciali dirette verso Israele in transito nel Mar Rosso e nello stretto di Bab el-Mandeb. Un percorso marittimo che ritengono di dover tutelare anche il governo britannico e quello statunitense, entrambi sul punto di una risposta militare in una zona dove già altri conflitti militari sono in corso. La marina iraniana ha annunciato lo schieramento di una flottiglia di navi da guerra nella via navigabile. Nei giorni scorsi, inoltre, l’Idf, l’esercito israeliano, ha affermato di aver colpito “infrastrutture” appartenenti all’esercito siriano nei dintorni della capitale Damasco, in risposta al lancio di razzi sul nord di Israele. L’Afp riferisce che l’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede in Gran Bretagna, ha affermato che il sito preso di mira, vicino alla città di Kanaker, nel sud della Siria, ospitava membri degli Hezbollah libanesi. Continuano invece dall’inizio della guerra le incursioni e i bombardamenti contro le postazioni degli Hezbollah nel sud del Libano, da dove piovono ogni giorno decine di razzi nel nord d’Israele, con trecentomila persone che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni. Ma in Libano Israele ha colpito anche nella capitale Beirut, con l’omicidio del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, che non sembra però aver ridotto la capacità di combattimento a Gaza dell’organizzazione terrorista.

Il quotidiano israeliano Yediot Ahronoth ha definito l’omicidio “una scommessa”, mentre l’ex premier Ehud Olmert si chiedeva: “Era così importante? Non ne sono così sicuro”, ponendo una domanda che serpeggia anche tra le famiglie degli ostaggi israeliani rinchiusi da Hamas nei sotterranei di Gaza. Nonostante alti funzionari governativi abbiano riferito al quotidiano Haaretz di essere comunque ottimisti in merito alla trattativa, un’opinione diversa, e capita spesso in queste settimane, viene dagli analisti del Pentagono, preoccupati che l’omicidio possa invece portare all’interruzione di qualsiasi negoziato sulla liberazione. Oltre ad Hamas anche Hezbollah ha promesso che l’uccisione di al-Arouri non resterà impunita. Il raid ha suscitato nell’amministrazione Biden il timore di una guerra ancora più estesa in Medio Oriente. Al-Arouri, infatti, era considerato una figura strategica chiave di collegamento con gli sponsor iraniani di Hamas, ma la sua azione si svolgeva in prevalenza verso la Cisgiordania, di cui era originario. E in Cisgiordania per protestare contro la sua morte la settimana scorsa sono stati indetti una serie di scioperi culminati con manifestanti mascherati che imbracciavano armi indossando fasce con il nome delle Brigate Ezzedin al-Qassam, l’ala militare di Hamas fondata da al-Arouri. Un’escalation dagli esiti prevedibili. Sarà invece difficile per il regime sciita iraniano, al di là della propaganda di facciata, attribuire a Israele e Usa l’esplosione che ha provocato decine di morti durante la commemorazione al cimitero del comandante iraniano Qassem Soleiman, ucciso da un drone Usa nel 2020.

L’Iran, alle prese con forti opposizioni, sia laiche che religiose, al suo interno, con prudenza ha parlato genericamente di un attacco terroristico innescato da “potenze arroganti”, ma non ha accusato apertamente nessuno. Sembra credibile invece la rivendicazione dell’Isis Khorasan, gruppo fondamentalista sunnita. L’Ayatollah Ali Khamenei, il leader supremo dell’Iran, fino a oggi non è mai intervenuto direttamente nel conflitto tra Israele e Hamas, pur prendendo le parti di quest’ultima. Sebbene sia Hezbollah, direttamente, che l’Iran, per procura, sostengano gli attacchi contro Israele, non sembrano in questo momento così desiderosi di ampliare il conflitto. Una prudenza dovuta alle azioni militari di Netanyahu al di fuori d’Israele, che hanno tre funzioni. Distrarre l’opinione pubblica mondiale dalla strage di civili in corso a Gaza, dimostrare ai nemici d’Israele una potenza militare superiore, riabilitare la propria immagine usurata all’interno del suo paese.

Tutti i tasselli del puzzle mediorientale ruotano intorno a questo leader contestato in patria da molto prima del 7 ottobre, sotto accusa per la mancata prevenzione del pogrom, al centro di diverse inchieste per frode e la cui riforma giudiziaria, che aveva spaccato il Paese, è stata adesso sconfessata dalla Corte Suprema. In questo momento soltanto la guerra e la necessità di una solida unità nazionale di Israele tengono in vita politicamente Netanyahu. Neanche la famiglia lo aiuta. Dopo lo scandalo del figlio, allegramente in posa sui social con i selfie da Miami mentre i suoi coetanei vanno in guerra per Israele, la moglie Sara avrebbe detto alle famiglie degli ostaggi, che criticavano la mancanza i risultati del governo di Netanyahu, che le loro parole stavano rafforzando Hamas, secondo quanto riferisce Channel 12. Tra le ipotesi discusse dal governo ma fuori dai radar di un dibattito pubblico anche quella di consentire ai leader di Hamas di lasciare la Striscia e risparmiare loro vite, in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi rimasti, e della fine della guerra. Il governo israeliano, secondo Times of Israel, smentito senza troppa enfasi da alcuni ministri, avrebbe intenzione di “incoraggiare l’emigrazione dei cittadini di Gaza e assicurare loro l’accoglienza in altre nazioni e a questo scopo sarebbe già in trattativa con vari paesi, tra cui il Congo”.

A Gaza intanto, raso al suolo il nord, i combattimenti proseguono nel sud della Striscia, continuando a mietere vittime. Per il ministro della Difesa Yoav Gallant, lo Stato ebraico manterrà il diritto di garantire la sicurezza nella striscia, ma il territorio avrà un governo palestinese. Non ha precisato da chi e come, limitandosi a escludere qualsiasi ruolo per Hamas.


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