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Non hanno visto incrementare le loro competenze tecnologiche, già elevate in partenza e neanche il livello di responsabilità e autonomia sul proprio operato. E sono la fascia anagrafica che è stata meno reclutata nel lavoro agile. Tuttavia per oltre un under 35 su tre lo smart working è un modello da cui non si torna indietro. Pur con i limiti che il lavoro a distanza ha evidenziato, ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, i giovani valutano i pregi di ciò che appare loro come un modello di vita più sostenibile.

Tre su dieci vogliono cambiare città e quattro su dieci pensano a cambiare casa. Interpreti in modo più integrale dell’esperienza di lavoro, tesi a coglierne al massimo le opportunità, a sorpresa soltanto uno su quattro (il 26,2%) lavora oggi a distanza, contro più del 32% delle fasce meno giovani.

Per contro, questa platea di lavoratori, sebbene abbia trovato con il lavoro “smart” il movente per liberare nuove progettualità, ha registrato le ricadute negative maggiori: aumentato carico di lavoro, dilatazione dei tempi lavorativi e stress da prestazione, in sei casi su dieci, contrapposti a scarso incremento di responsabilità e autonomia; marginalizzazione rispetto alle dinamiche aziendali, nel 56,6% dei casi; problemi fisici derivanti dall’inadeguatezza delle postazioni (53,6%); noia e disaffezione verso il lavoro sono i disagi denunciati in misura più estesa.

A scattare la fotografia è stato il Rapporto “Gli Italiani e il lavoro dopo la grande emergenza”, presentato in occasione del Festival del Lavoro organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dalla sua Fondazione Studi il 28 e 29 aprile scorsi. L’esperienza del lavoro agile è stata vissuta in modo molto diverso da giovani e adulti, da lavoratori con e senza figli, anche in base alla conciliazione con la vita privata.

Sul totale della popolazione che ad aprile 2021 lavorava da casa, pari a circa 7,3 milioni di lavoratori, ovvero un lavoratore su tre (31,7%) del totale, uno su due boccia l’esperienza. Il 40%, in prevalenza persone con figli, è pronto a tornare in presenza. “In realtà non è stato smart working, ma home working – spiega il presidente della Fondazione, Rosario De Luca al Quotidiano del Sud –, vale a dire che il lavoro così come era concepito prima della pandemia, ove possibile è stato spostato a casa”.

A questo proposito, aggiunge De Luca, «occorre vedere come le bellissime idee del PNRR verranno declinate in provvedimenti normativi. Per dare gambe ai progetti, visto che la digitalizzazione sarà trasversale a tutti i settori produttivi, bisogna pensare non soltanto all’impatto occupazionale, ma anche a quello organizzativo del lavoro. È necessario intervenire su due piani fondamentali: da una parte, rafforzando il quadro normativo, perché un ricorso in percentuali così alte al vero smart working richiede la regolamentazione di situazioni critiche, dal diritto alla disconnessione agli istituti contrattuali che non sono applicati agli smart workers, come lo straordinario e i buoni pasto. Dall’altra parte, il piano più importante è un salto culturale verso un modello più orientato al risultato, dove responsabilità e autonomia sono la stessa faccia della medaglia. È la sfida più difficile. Ma l’idea della prestazione così come è concepita oggi, su base oraria, non può reggere con il lavoro agile. E lo smart working non può essere applicato al 100%».

Un aspetto certamente spinoso, su cui fra l’altro il Governo, confermando con il decreto legge “Proroghe”  l’eliminazione dell’obbligo di smart working al 50% nella Pa, ha mosso un importante passo. Il titolo di studio è uno spartiacque, così come le dimensioni delle aziende che più grandi sono, maggiore ricorso fanno al lavoro a distanza. Oltre cinque smart workers su dieci (52,2%) sono laureati, percentuale che cala drasticamente al 13,5% tra chi ha un titolo di studio inferiore al diploma.

Più diffuso (54,6%) nelle aziende del terziario, dei servizi, del credito e assicurazioni, scende al 37,8% nella PA, al 27,9% nell’industria e al 21,2% nel commercio e distribuzione. Con livelli di diffusione di poco inferiori al Sud rispetto al Nord, il lavoro agile divide gli italiani. A coloro che hanno potuto incrementare la capacità di concentrazione, coltivare interessi e scelte di vita altrimenti inconciliabili con l’attività, come lavorare nelle seconde case o in luoghi di vacanza, con punte del 48,5% fra gli under 35, o trascorrere dei periodi con familiari e amici lontani (37,1%), si contrappone la schiera di chi lamenta, fra i tanti limiti, spazi domestici inadeguati (39,6%) e teme la penalizzazione della propria carriera (33%).


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