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Una mensa della Caritas

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POVERTA’, vecchie e nuove. Marcate o rimarcate, emergenti o stagnanti. Comunque esistenti, che nascono, crescono e si moltiplicano spesso in contesti ben più prossimi di quanto ci si aspetterebbe. Un’incidenza particolare l’ha avuta la pandemia, i cui effetti, nell’immediato e nel medio periodo, hanno contribuito alla creazione di nuove sacche di sofferenza anche per coloro che, prima dell’impatto del Covid, conducevano uno stile di vita tutto sommato ordinario, se non addirittura agiato. Il problema è che un singolo evento, sia pur estremamente rilevante come quello pandemico, è solo una componente di un’emergenza che interessa profondamente, e da ben più tempo, l’intero piano sociale. E la latenza di alcuni aspetti poco edificanti di una società – che pure sembra registrare passi importanti in direzione della ripresa post-Covid – ha fatto sì che il quadro sulle povertà contemporanee diventasse estremamente variegato, interessando anche le nuove generazioni.

È quanto emerge dal Report statistico nazionale della Caritas italiana, che dipinge un quadro due volte sconfortante: in primis per l’evidenza di una condizione persistente di sofferenza in diverse fasce della popolazione. E, nondimeno, per un deficit a livello occupazionale che sempre di più coinvolge i lavoratori più giovani. Nel dossier emerge come siano in progressivo aumento le famiglie costrette a richiedere un aiuto per riuscire a garantirsi un adeguato tenore di vita, almeno per le esigenze di base. Un dato che dipinge in modo abbastanza evidente le difficoltà incontrate dalle nuove generazioni nell’inserimento in un mondo del lavoro che sempre meno garantisce una stabilità economica nel tempo.

Secondo il report, infatti, è la precarietà a incidere negativamente sulla solidità finanziaria delle famiglie, limitando lo sviluppo e la crescita di quelle esistenti e ostacolando la formazione di quelle nuove. Perché la precarietà dei posti di lavoro significa, di rimando, «vulnerabilità e povertà economica, verso la quale sarà necessario dedicare un numero crescente di risorse umane e assistenziali». Se, in passato, il divario maggiore nello sviluppo economico delle famiglie poggiava su un fattore perlopiù territoriale, quale il gap storico tra Nord e Sud, il quadro appare oggi più unitario. Pur persistendo marcate differenze tra il Settentrione e il Mezzogiorno, la precarietà diffusa ha fatto sì che lo scenario sulle nuove povertà sia in qualche modo più uniformato, anche per «la forte incidenza dei lavori irregolari e dei contratti non standard, soprattutto tra i giovani». Non bisogna credere, infatti, che siano esclusivamente i lavoratori disoccupati a rivolgersi all’assistenza delle Caritas. Stando al rapporto, specie nelle regioni del Nord, coloro che dichiarano di avere un impiego occupano una buona percentuale dei richiedenti totali, con una particolare concentrazione in Lombardia (18,7%) ed Emilia-Romagna (17%). Perlopiù si tratta di uomini (51,9% contro il 48,1% di donne) di età compresa tra 35 e 54 anni e in maggioranza cittadini stranieri, impiegati in professioni non qualificate e in prevalenza (75,9%) con figli a carico.

La necessità di rivolgersi a un centro di ascolto o di assistenza, nella maggior parte dei casi, è figlia di una convergenza di fattori, che nascono tuttavia da uno stato di fragilità economica (comune per il 78,5% dei richiedenti) spesso dovuto a una totale assenza di entrate o un limitato apporto del reddito. Informazioni che ben descrivono l’affinità tra uno stato di disoccupazione e quello portato da un impiego poco stabile o non adatto a garantire un’entrata sufficiente alla soddisfazione dei bisogni primari. E, in effetti, tra gli ambiti di richiesta è proprio il lavoro a fare da pietra d’angolo: il 45,7% degli assistiti manifesta uno stato di precariato, lavoro nero o perdita dell’impiego. Una vulnerabilità che, spesso, innesca un effetto domino sulle componenti che poggiano sullo stato economico del nucleo familiare, a cominciare dall’abitazione. Secondo il report, tra il 2020 e il 2022 le problematiche relative alla casa sono passate a interessare il 23,1% delle persone dal precedente 19,4%. Con buona parte dei richiedenti che evidenzia l’impossibilità di ottenere un domicilio stabile o lamenta sistemazioni precarie o inadeguate.

È quindi evidente (anche se probabilmente non sorprendente) come il termine “precarietà” possa implicare diverse declinazioni, tutte strettamente correlate tra loro. Dall’instabilità economica che sempre più spesso caratterizza i più giovani – sui quali ancora incide l’aiuto interno delle famiglie d’origine come soluzione “tampone” contro le difficoltà dell’ottenere un’autosufficienza totale – scaturisce un effetto a cascata che rende traballante qualsiasi componente della quotidianità domestica. Costringendo le famiglie a rivolgersi ad aiuti esterni per mantenere uno status quo interno che, nella maggior parte dei casi, riguarda le esigenze più immediate, dall’aiuto per il pagamento delle utenze alla spesa alimentare. In questo senso, non è un caso che le richieste d’aiuto arrivino perlopiù dalla fascia di età che va da dopo i trent’anni ai 44 (22,6%). Quella che, più di tutte, ha subìto gli effetti negativi del passaggio generazionale, ereditando un mondo del lavoro sempre più complesso e decisamente meno stabile.


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