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NON sempre alla progressione degli strumenti tecnologici e logistici corrisponde un adeguamento degli standard di sicurezza; questo, almeno, è quello che sembra emergere dai numeri relativi alle morti avvenute sui posti di lavoro, una vera e propria strage. E non necessariamente decessi avvenuti nel corso di operazioni di salvataggio o comunque ad alto rischio. Le croci bianche, fin troppo spesso, ricordano persone mancate nello svolgimento di mansioni ordinarie, a riprova del fatto che, in buona parte dei casi, sono le misure di sicurezza standard a rivelarsi fallaci.

Episodi come la strage di Brandizzo, nella quale hanno perso la vita cinque operai al lavoro sui binari di una ferrovia, il più giovane di appena 22 anni, travolti da un treno in corsa, occupano pagine di cronaca senza che, in modo chiaro, sia possibile capirne le ragioni. Non perché non siano chiare le dinamiche ma per ragioni legate essenzialmente alla mancata garanzia della sicurezza nello svolgimento del proprio dovere. In alcuni casi ci si trova di fronte a delle fatalità, forse, ma in altri le falle nel sistema di salvaguardia dell’incolumità di chi opera sono evidenti. A dirlo non sono solo gli episodi drammatici ma anche i numeri di una strage silenziosa sui luoghi di lavoro e che, negli ultimi mesi, ha visto coinvolti numerosi settori. E che flagella in modo costante il tessuto sociale del nostro Paese. Senza fare distinzioni di età o sesso, anche se il bilancio riguarda perlopiù gli uomini. Un recente report di Unicef, ad esempio, ha individuato 74 casi di morti “under 19” sul lavoro negli ultimi cinque anni.

A conferma di come anche gli operatori giovani o molto giovani siano esposti ai rischi della scarsa sicurezza. Un tema dibattuto ma che, per il momento, al di là di una presa di coscienza successiva a episodi come quello di Brandizzo, vede ancora un approccio approssimativo, soprattutto in termini di risorse. Eppure, a margine del Forum Ambrosetti, il ministro del Lavoro, Marina Calderone, ha ribadito come i fondi di intervento non manchino ora come non sono mancati in passato, anche nell’ambito di quelli ordinari. Piuttosto, ha spiegato, a fronte di «un buon impianto di norme», c’è bisogno di «investire tantissimo sulla cultura della sicurezza e sulla prevenzione».

In sostanza, più un problema di approccio che di intervento vero e proprio. Purché i tempi per una consapevolezza definitiva non siano troppo lunghi. Secondo l’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega Engineering, sono bastati i primi sette mesi del 2023 per arrivare in Italia a oltre 500 morti nel contesto lavorativo: 559 in totale, ben 430 delle quali sul posto di lavoro. Un numero esponenzialmente salito rispetto al 2022, nella misura del 4,4% in più rispetto a quanto era stato riscontrato a luglio dello scorso anno. Le vittime operavano per la maggior parte nel settore dei trasporti e del magazzinaggio (61) e dell’edilizia (58). Morti registrati sia nello svolgimento della propria mansione che nel tragitto da percorrere per raggiungere il posto di lavoro. Una strage vera e propria, amplificata dalle storie di vita di coloro che ne sono vittime. Quotidianità stroncate nel corso di quella che dovrebbe essere l’attività necessaria per mantenerle, minate da una politica di welfare che, in alcune circostanze, sembra non tener conto della necessità di preservare l’integrità fisica (e in alcuni casi anche psicologica) di coloro che le svolgono. E non è solo questione di non garantire adeguati strumenti di salvaguardia. Spesso è la mancanza di controlli, aggiornamenti, adeguamenti e conformazioni dei sistemi di tutela a venire meno.

Un tema sul quale, soprattutto a seguito dei fatti di cronaca susseguitisi nelle ultime settimane, ha portato i sindacati di categoria ad alzare il pressing sul Governo, affinché vengano adottate misure imponenti per evitare la strage sui luoghi di lavoro: «Si deve investire in sicurezza – ha detto il vicepresidente dell’Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (Anmil), Emidio Deandri –. Inail stesso ha un avanzo annuale di oltre 2 miliardi di euro. Serve formazione». Fino al 30 giugno, le denunce di infortunio con esito mortale erano date in calo, anche se solo nell’ordine di 13 istanze in meno rispetto all’anno precedente. Sono bastati appena altri due mesi, tuttavia, per riportare i dati a livelli superiori a quelli del 2022. Il punto è che, considerando la base costituzionale che vede nel lavoro il fondamento di base della nostra Repubblica, anche una sola vittima nello svolgimento delle proprie mansioni sarebbe eccessiva.

Anche perché, stando alle analisi degli osservatori competenti, i fronti di rischio sono in aumento. L’analisi dell’Anmil, ad esempio, evidenzia come vi sia una significativa incidenza delle malattie professionali, che sempre più spesso contribuiscono a incrementare i dati relativi alle croci bianche. Secondo l’associazione, almeno 3 mila morti vanno attribuite alle conseguenze di malattie contratte sul posto di lavoro. Si tratta di decessi che, estendendosi in un lasso temporale variabile e tendenzialmente più ampio, impediscono un ragionamento concreto sulla reale portata del problema. Eppure, stando ai dati Inail, nel primo semestre del 2023 le denunce di malattia professionale sono state 38.042, ossia circa 7 mila in più rispetto allo scorso anno, con un vertiginoso +87,1% rispetto al 2020. O, se non si vuole tener conto dell’anno di pieno Covid, potrebbe bastare il +16,8% sul 2019, ultimo anno pre-pandemico.


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