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IL SUD inizia a tirare il carro (economico) nella direzione giusta, un trend finalmente invertito sia dal punto di vista educativo che del lavoro. Prova ne sia che, secondo quanto rilevato dall’Osservatorio economico di Unioncamere Sicilia, i registri delle Camere di Commercio siano stati riempiti da un numero quasi record di nuove attività economiche nel terzo trimestre del 2023. È la Campania a fare da aprifila ma anche la Sicilia prova a inserirsi nel nuovo tessuto imprenditoriale nazionale, registrando 3.944 Partite Iva su 18.295 imprese sorte nel Mezzogiorno (59.236 in totale a livello nazionale). Segno evidente di una spinta propulsiva che ha, come primo scopo, quello di emancipare il Sud dal ruolo di fanalino di coda dello sviluppo economico del Paese.

Un impulso che, se da una parte punta a coinvolgere la forza lavoro più fresca, dall’altra al Sud dev’essere bilanciata dal necessario supporto statale per la riqualificazione dei poli educativi immediatamente precedenti all’ingresso nel mondo del lavoro. In questo senso, qualche rassicurazione è arrivata dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, fiducioso nei contenuti dell’Agenda Sud e nella possibilità che, anche sul piano educativo, il Mezzogiorno possa divenire nel tempo un polo di riferimento.

La prima spinta dovrebbe arrivare con il finanziamento da 325 milioni circa previsto dall’Agenda per il risanamento e il potenziamento delle scuole. Senza dimenticare la principale vocazione del Meridione, quella agricola, con poco più di 138 milioni di euro già attivi in bandi sul Complemento di Sviluppo Rurale (Csr) 2023-2027. Sulla carta, un nuovo tentativo di bilanciare lo sviluppo del Sud conciliando esigenze formative e di lavoro. Al contempo, l’attenzione resta inevitabilmente sul pregresso sociale dal quale si è partiti. In questo senso, i recenti allarmi sulla denatalità in Italia hanno fatto rumore ma aiutano fino a un certo punto a comprendere la portata del fenomeno. Perché il dramma delle culle vuote non nasconde, dietro di sé, unicamente i frutti di una società radicalmente mutata anche rispetto a pochi decenni fa. La minor propensione delle famiglie italiane alla prole rappresenta, in qualche modo, la convergenza dei fattori più destabilizzanti del passaggio generazionale, evidente soprattutto nel mondo del lavoro e, in misura maggiore, per quel che riguarda la fascia d’età dalla quale, teoricamente, ci si aspetterebbe non solo un’indipendenza economica dalla famiglia di origine ma anche un percorso familiare proprio già avviato. Il riferimento è, chiaramente, ai giovani che fanno parte dell’ultima tranche dei cosiddetti Millennials, ossia coloro che più di tutti hanno sentito su di sé gli effetti della crisi che ha colpito le economie occidentali all’inizio degli anni Duemiladieci. Un colpo inferto duramente alle aspirazioni e, nondimeno, alla possibilità di emanciparsi in tempi meno lunghi (come accaduto alla generazione precedente) dal proprio nucleo originario.

Di contro, una nuova concezione della società e del futuro ha permesso alla forza lavoro più giovane – e in generale a quella che inizierà nei prossimi anni il proprio percorso lavorativo – di poggiare le proprie basi su strumenti e meccanismi nuovi ai quali la generazione precedente ha dovuto adeguarsi strada facendo. Eppure, l’analisi generale del passaggio intergenerazionale è solo una panoramica, magari dettagliata ma decisamente poco esaustiva. Perché lo spaccato della nostra società è decisamente più complesso e, anche per coloro che dovrebbero rappresentare il futuro del Paese, l’ascesa sociale, così come l’emancipazione dai contesti urbani più svantaggiati, risulta una corsa a ostacoli, molto spesso proibitiva.

La recente analisi “Fare spazio alla crescita”, redatta da Save The Children, dimostra come quasi 4 milioni di bambini e ragazzi compresi tra 0 e 19 anni (sui 10,5 milioni circa che vivono in Italia) vivano nei quartieri più disagiati delle 14 città metropolitane. Quadri territoriali dove non solo risulta più complesso intravedere il futuro ma anche ritrovarsi a disporre dei mezzi adatti per costruirlo, a cominciare dalle scuole. Perché, secondo l’indagine, è proprio in tali situazioni che l’istituzione scolastica, contrariamente alle potenzialità educative conferite dal proprio ruolo, trova le maggiori difficoltà: su 114 Municipi dei Comuni principali, infatti, sono 33 quelle che rischiano il cosiddetto “dimensionamento”. In sostanza, nonostante l’occhio della crescita nazionale indugi soprattutto sulle fasce d’età più giovani, promuovendo iniziative di carattere sociale e formativo di livello, riuscire a conciliare le intenzioni con la promozione socio-culturale dei vari territori risulta ancora complesso. I numeri peggiori, negli ultimi anni, hanno riguardato proprio il Sud Italia (a Palermo, ad esempio, l’istruzione scolastica a tempo pieno tocca appena il 6,5%, a fronte di una media nazionale che si attesta al 38%) ma l’emergenza riguarda anche importanti città del Centro e del Nord. È il caso di Roma e Venezia dove, rispettivamente, il 38,8% e il 36,9% della popolazione appartiene a una fascia di reddito bassa. Anche a Torino, in 4 municipi su 8, lo svantaggio sociale risulta più evidente. Questo per dire come la portata del fenomeno non riguardi unicamente lo sviluppo del territorio ma anche gli strumenti a disposizione per ottenerlo.

Solitamente, in un contesto urbano di degrado e di sostanziale scarsità di risorse economiche di chi lo abita, la commistione dei fattori crea effetti tangibili anche nel quotidiano, non solo rispetto ai macrotemi sociali, come la scuola o il decoro. La nuova Agenda punta quindi a frenare la tendenza negativa e, addirittura, a rilanciare creando un’opportunità per preparare i cittadini del domani a un futuro occupazionale che, forse, potrebbe non richiedere più viaggi fuori Regione per cercare lavoro dal Sud verso il Nord.


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