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Amadeus e Lorena Cesarini sul palco dell'Ariston

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Si è conclusa lo scorso weekend la 72esima edizione del festival di Sanremo. Al di là della musica, a destare l’interesse del pubblico – ed a stimolare le polemiche – sono stati gli ospiti e gli intermezzi proposti durante la settimana del festival. Sebbene negli ultimi anni la televisione italiana (ed in generale il mondo dello spettacolo) stia tentando di aggiornare il proprio repertorio approcciando a temi e proposte differenti, sembra che ad ostacolare tale processo siano talvolta limiti ideologici, più che generazionali.

Nonostante il chiaro tentativo di creare una co-conduzione eterogenea ed inclusiva, a molti è sembrato che, più che normalizzare rispetto a specifiche tematiche, la trasmissione si sia infatti prestata, nel corso di questi giorni, anche a facili clichè.

Ha fatto molto discutere, ad esempio, la presenza sul palco di Lorena Cesarini, ad apertura della seconda serata. Il monologo sul razzismo proposto dall’attrice, sinceramente vicina alla causa, è stato infatti da tanti poco apprezzato proprio a causa del modo in cui Cesarini stessa è stata introdotta. Nonostante fosse chiara la volontà di sensibilizzare su un tema estremamente delicato, diversi attivisti della comunità nera italiana hanno fatto notare tramite i social come la presenza dell’attrice sia apparsa come l’ennesima vittimizzazione di una persona costretta a giustificare la sua presenza in quanto marginalizzata, piuttosto che essere invece valorizzata per la sua storia personale o per le sue capacità.

Diverse voci hanno fatto notare come, sul palco dell’Ariston, la presenza di Cesarini sia sembrata una parziale strumentalizzazione della sua identità e che, concentrandosi sul suo colore della pelle, ne sia stata offuscata qualsiasi altra capacità professionale (in effetti, mai citata durante il suo intervento). Nonostante le buone intenzioni fossero più che trasparenti, il risultato della performance ha lasciato gran parte del pubblico con un certo amaro in bocca ed il dubbio che il merito abbia talvolta poco a che fare con la selezione stessa, nel momento in cui all’ospite viene dato troppo tempo per giustificare la propria presenza.

Durante la seconda serata, Checco Zalone ha portato sul palco una fiaba definita LGBTQ, con l’obiettivo di smascherare l’ipocrisia delle persone omofobe che si avvalgono segretamente dei servizi delle sex worker transgender. Nonostante le premesse interessanti, nei risultati la leva comica di Zalone, sebbene susciti la risata, ha ricalcato (volutamente) tutti gli stereotipi legati alle donne transgender, rinforzando (involontariamente), secondo i più, un’immagine stigmatizzata estremamente lesiva nei confronti della comunità trans. Fare umorismo su determinati temi porta con sé una necessaria dose di responsabilità ed ironizzare sui corpi senza scardinare lo stereotipo corre il rischio di peggiorare le premesse, quando l’italiano medio – obiettivo polemico dello sketch –  è reso entusiasta e ancor più saldo nelle sue convinzioni.

In effetti, il dubbio circa la riuscita del pezzo sembra essere avvalorato dall’entusiasmo con cui la performance è stata accolta da alcuni esponenti di una certa classe politica, che si è dimostrata più volte apertamente discriminatoria nei confronti della comunità LGBTQIA+.

Ancora, nel corso della quarta serata, Maria Chiara Giannetta ha raccontato la sua esperienza di attrice nel descrivere la preparazione fatta per interpretare il personaggio di Blanca, una stagista cieca. Giannetta è stata affiancata dai quattro consulenti, non vedenti, che l’hanno aiutata a interpretare il ruolo. Ma mentre l’attrice ha spiegato con dovizia di particolari quel che questa esperienza le ha restituito, ai consulenti non è stato dato (forse anche a causa delle tempistiche dello show) alcuno spazio comunicativo, lasciando il pubblico nuovamente con l’impressione che si sia preferito mostrare la disabilità in un’ottica esclusivamente ispirazionale.

Viviamo però in una fase storica in cui gli argomenti che riguardano i temi dell’inclusione e della diversità cominciano ad essere presi in considerazione, talvolta per cura e a volte – purtroppo – per convenienza. L’ambiente mediatico non è certamente immune da questa fascinazione, che corre però sempre, se non si presta attenzione, il rischio di generare risultati grotteschi. Non sarebbe in ogni caso corretto sostenere che non vi sia stato un sincero tentativo da parte della direzione artistica del Festival di sensibilizzare l’audience su temi differenti, anche rispetto alle passate edizioni. In certi casi, in modo riuscito.

Molto diversa è stata infatti la reazione del pubblico all’arrivo di Drusilla Foer, la cui presenza sembra essere stata unanimemente recepita come una reale e riuscita inclusione. L’artista ha portato sul palco temi importanti, con battute irriverenti ed un’eleganza che è la stessa con la quale ha affrontato il tema della diversità (o meglio dell’unicità, termine che la Foer preferisce utilizzare). La differenza sembra essere stata proprio determinata dall’assenza di spiegazioni; se inclusione significa infatti soprattutto normalizzare la presenza di personalità differenti, creando una nuova normalità e combattendo gli stereotipi con la più genuina naturalezza, pare che in questo caso la volontà della conduzione sia stata pienamente soddisfatta.


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