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Il 27 gennaio si celebra il giorno della memoria, ma che non sia un alibi; l’antisemitismo abita ancora in Europa
Il 27 gennaio: il Giorno della Memoria, in cui si ricorda in Italia dal 2000, la liberazione, da parte dell’Armata rossa, del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (in Polonia ma vicino ai confini con la Germania). In quel campo che dell’Olocausto è divenuto il simbolo, il presidente Sergio Mattarella parteciperà alla cerimonia di commemorazione.
Oggi i media – magari gli stessi che nell’ultimo anno hanno coperto di critiche Israele – dedicano i loro programmi alla Shoah e continueranno a farlo anche nei giorni prossimi. E’ certamente una scelta giusta, opportuna e condivisibile, perché la memoria deve essere coltivata e custodita anche quando riguarda l’abominio dell’Olocausto di cui l’Europa si rese responsabile. Purtroppo, come abbiamo visto con sgomento e raccapriccio dal “7 ottobre’’ in poi non si tratta di una pagina chiusa per sempre.
L’antisemitismo è una piaga mai suturata nella storia secolare del Vecchio Continente, sulla quale ha potuto imporsi la ‘’banalità del Male’’ del nazismo, le cui radici erano piantate in vicende tragiche e spietate di autodafé, di pogrom, di ghettizzazione, di conversioni forzate, di negazione dei più elementari diritti, di torture e massacri. Anche questo passato dovrebbe essere ricordato in questa giornata. E soprattutto questa reminescenza non può essere un alibi. Sono in tanti coloro che si scaricano la coscienza commemorando gli ebrei morti, per criticare quelli vivi assediati, da nemici troppe volte giustificati, in quella terra promessa che è lo Stato d’Israele.
Poi non è un mistero che l’antisemitismo sia tuttora vivo e vitale in Europa. E non riguarda soltanto i settori dell’Islamismo radicale (anche senza spingersi tanto in là non dimentichiamo quell’integralismo di Stato che impone la legge islamica – la cosiddetta “sharia” – anche nella vita civile o prevede la morte nei casi di apostasia e blasfemia); ma cova anche nelle cellule cancerogene dei gruppuscoli neo-nazifascisti, i cui militanti – come se rispondessero ad un riflesso pavloviano – fanno dell’antisemitismo uno dei loro ‘’credi’’ centrali.
Purtroppo l’antisemitismo è attecchito anche a sinistra, sia pure sotto la specie menzognera dell’antisionismo, tanto che si tenta di tradire la storia e di presentare gli ebrei nel ruolo di nuovi nazisti persecutori dei palestinesi, i quali sono divenuti le nuove vittime del ‘’genocidio’’ operato dal colonialismo israeliano. I carnefici sono diventati le vittime e viceversa.
Nel 2025 ricorre anche la mia scoperta della Shoah. Poco più che ventenne nel 1965 mi capitò di compiere un’esperienza che mi ha lasciato un segno indelebile. Nella primavera di quell’anno l’Associazione dei deportati della mia città invitò dei rappresentanti dei movimenti giovanili dei partiti ad un pellegrinaggio nei campi di sterminio (in cui venivano rinchiusi non solo gli ebrei, ma gli zingari, i politici e gli omosessuali). Io partecipai per la Federazione giovanile socialista. Sul pullman c’erano ex deportati (anche per motivi politici e non solo razziali) e famigliari di quelli che non avevano fatto ritorno. Le visite si limitarono ai campi che si trovavano in Austria (allora le frontiere erano chiuse). Facemmo una sola visita in Germania Ovest al campo di Gusen (sostituito da un Monumento), perché i siti principali tra cui Buchenwald si trovavano nella DDR.
Fu un’esperienza molto commovente perché in ogni campo alcuni dei partecipanti avevano avuto un congiunto o vi erano stati rinchiusi. La visita più importante avvenne nel campo di Mauthausen che era praticamente rimasto intatto e che faceva da scenario della vita quotidiana in quei campi di detenzione. Quando ci recammo in quel sito era in corso la rievocazione della liberazione da parte degli americani a cui partecipavano rappresentanze straniere. Mi fece piacere trovare un sottosegretario socialista, inviato dal governo italiano, che era stato detenuto in quel campo.
Un altro episodio che mi colpì avvenne durante il ritorno in Italia. A un certo punto – credo fossimo in Veneto – il pullman si fermò vicino ad un sacerdote (forse era solo un seminarista) che stava sul ciglio della strada. Uno dei partecipanti al pellegrinaggio, comunista, scese e lo abbracciò, perché era suo figlio.
Ma la mia esperienza con queste tragedie della storia non era conclusa. Una decina di anni dopo, andai a visitare, in un altro ruolo più ufficiale, il campo di Buchenwald (con l’insegna crudelmente beffarda: ‘’il lavoro rende liberi’’). La costruzione era stata in parte demolita; al posto della baracche (ancora in piedi a Mauthausen) vi erano degli enormi rettangoli di carbone, mentre restavano intatti i locali delle ‘’docce’’ di gas e dei forni crematori. Ma lo cosa che più mi impressionò in quella visita non fu il campo in sé, giacché ne avevo visti tanti (sic) in Austria, ma la sua collocazione. Buchenwald si trova a pochi chilometri da Weimar, la città simbolo della cultura tedesca (ed europea), la città di Goethe e dei grandi filosofi idealisti. La città che fu capitale della Repubblica democratica dopo la Grande Guerra.
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