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ASSENZA dei livelli essenziali delle prestazioni; utilizzo opaco dei fabbisogni standard; mancata riforma del catasto; mancato avvio della perequazione infrastrutturale. Parole pesanti come un macigno che in sintesi vogliono dire: no alla secessione dei ricchi. Alla Ragioneria generale dello Stato non tornavano i conti presentati da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre Regioni volevano convincere il dipartimento del ministero dell’Economia che l’autonomia differenziata, vale a dire il trasferimento da Roma a Milano, Venezia e Bologna della gestione e dei relativi fondi di una ventina di competenze tra cui scuola, infrastrutture e sanità, era a costo zero per le casse dello Stato e che tutti gli italiani avrebbero continuato a vivere felici e contenti. E invece al Mef i conti li sanno fare. E non solo hanno stoppato la fuga in avanti dei tre governatori perché il progetto si porta dietro costi importanti per le casse pubbliche, ma hanno anche detto loro chiaro e tondo, come il Quotidiano del Sud ha rivelato ieri riportando stralci del documento riservato, che il regionalismo differenziato così com’è stato concepito aumenterebbe la disparità tra Nord e Sud.

L’EVIDENZA Negare a questo punto serve a poco. Ma il vero dramma non sta tanto nel fatto che le Regioni ricche vogliono crescere sempre di più a scapito del resto della Penisola, ma che non hanno nessun interesse affinché il Sud alzi il livello dei servizi adeguandolo alla parte più virtuosa, se così si può definire, del Paese. Alla Padania, un meridione più arretrato serve. È servito durante il boom economico quando riusciva a reperire manodopera a basso costo per riempire le catene di montaggio delle fabbriche e oggi per attrarre i cervelli del Sud da pagare il minimo tabellare, perché a casa loro, semmai riuscissero a trovare un lavoro, guadagnerebbero molto meno. La Ragioneria generale dello Stato ha detto che l’autonomia differenziata non solo non elimina le discriminazioni che già esistono tra Nord e Sud (“l’assenza dei livelli essenziali delle prestazioni” influisce negativamente sul meccanismo perequativo) ma che esiste fortissimo rischio che queste aumentino.

IN VIAGGIO E cosa può chiedere di più, per esempio, la macchina stampa-soldi del servizio sanitario di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che sono in testa alla classifica tra le regioni che attirano il cosiddetto turismo della salute. Un business che, compresi gli arrivi dall’estero, vale 5 miliardi l’anno con circa un milione di migranti della salute, per lo più provenienti dal Sud. Le strutture private convenzionate del Nord si riempiono, e volentieri, di malati provenienti dal Meridione, visto che con loro si spostano parenti e amici che, per assistere i loro cari occupano camere d’albergo e consumano pasti nei rinnovatissimi bar e ristoranti padani. Secondo il Quotidiano Sanità, chi fa il pieno è come sempre la Lombardia, con un saldo positivo di oltre 692 milioni di euro, poi c’è l’Emilia Romagna con poco meno di 326 milioni, la Toscana, con 145 milioni, e il Veneto con 99 milioni di euro.

L’INIZIATIVA Regioni che scommettono proprio su questo settore per macinare utili. Spettacolare l’iniziativa lanciata ieri dal servizio sanitario veneto: “Vieni a partorire qui e ti regaliamo il mare”. In pratica, scrive il Quotidiano Sanità che rilancia la notizia, a tutte le donne che partoriranno nei punti nascita dell’Ulss 4 “Veneto Orientale” viene regalato un voucher per usufruire gratis, per due settimane, di un ombrellone e due lettini negli stabilimenti balneari di Bibione, Caorle, Eraclea e Jesolo. Ma il turismo sanitario non si attiva solo per i lieti eventi. Anzi, molto più spesso è collegato a gravi patologie. L’Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità, pubblicato dall’Istat tre mesi fa, ci dice che l’aspettativa di vita di una donna lombarda è di quasi due anni più alta rispetto a quella di una siciliana. Un maschio veneto vive un anno e nove mesi in più di un campano, un emiliano poco meno di un anno in più rispetto a un calabrese. Ma come fa a dormire tranquillo chi ci governa? La differenza va trovata nel divario dei redditi medi e nella qualità del sistema sanitario. Un laureato – più attento alla prevenzione e mediamente con uno stipendio più alto – vive cinque anni in più di un diplomato, ma non se è un laureato del Sud. Così chi può permetterselo da giù va a farsi curare più su che può. In Lombardia ogni anno arrivano 38 mila malati dalle altre regioni italiane. Proviamo a indovinare da dove? Dalla sola Campania, per esempio, “emigrano” 19 mila pazienti all’anno. I lombardi invece sono i più stanziali d’Italia, non sentono la necessità di farsi curare altrove. Campania Calabria e Sicilia sono le regioni con il minor numero di ricoveri: solo 86,92 su 1.000 abitanti contro una media nazionale di 102,92. Questo perché, con parenti al seguito, vanno negli ospedali convenzionati o privati del Nord. Sono dati del ministero della Salute rielaborati da “TrueNumbers” che ci dicono quanto sia tragico il problema del turismo sanitario all’interno della nostra nazione. Eppure, come ha ricordato un recente approfondimento de l’Espresso, i cittadini del settentrione spendono in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro.

UGUALI E DIVERSI Siamo lì, non ci sono differenze sostanziali. Ogni cittadino calabrese spende 1.875 euro l’anno per la sanità pubblica, di cui 126 fatturati dalle regioni settentrionali. I lombardi spendono invece 1.877 euro a testa, praticamente quanto i calabresi ma per una sanità d’eccellenza, resa possibile proprio grazie all’immigrazione sanitaria dal Sud. E infatti secondo il rapporto Cergas Bocconi, la sola Calabria riesce a produrre l’8% dei viaggi della speranza verso altre regioni. Un paziente su sei si fa curare fuori regione il che vuol dire un debito per i calabresi di 304 milioni. Il turismo sanitario in un paese unitario ha senso – oltre che dall’estero – all’interno delle singole Regioni o al massimo in macro aree. Come ha tempo fa sottolineato Americo Cicchetti, direttore Altems (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari) dell’Università Cattolica, esistono macchinari così costosi che possono essere acquistati in soli tre esemplari, che però vanno divisi con giudizio: uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Queste macro aree regionali devono poi supportare delle eccellenze regionali. Allora sì, ha senso far spostare il malato per la cura specialistica in centri d’eccellenza ma all’interno della Regione di appartenenza; poi nell’ospedale vicino casa il malato continuerà la terapia. Una tendenza in atto ma che evidentemente le regioni più attrattive sotto il punto di vista del turismo sanitario, vale a dire Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna preferiscono scardinare con l’autonomia differenziata. Gli affari sono affari.


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