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LO STATO si prepara ad assumere la proprietà della Banca Popolare di Bari. Gli ultimi accordi sono stati siglati appena due giorni fa insieme a un rimborso che potrebbe arrivare a settanta milioni di euro a favore dei piccoli azionisti. Inizialmente ci sarà un intervento congiunto del Fondo di Garanzia Interbancario e del Mediocredito centrale guidato da Bernardo Mattarella. Alla fine del percorso il Fondo uscirà di scena lasciando il timone e il controllo all’istituto pubblico, che avrà il 97% del capitale. La perdita per il consorzio delle banche sarà superiore al miliardo, mentre il Tesoro tornerà a fare il banchiere in grande stile.

LA FAME DEI PARTITI

La banca pugliese, infatti, affiancherà il Montepaschi, di cui il Tesoro già possiede il 68%. Secondo gli accordi di tre anni fa, lo Stato avrebbe dovuto preparare un piano di dismissione da concludere entro il prossimo anno. In realtà non se ne farà nulla. Grazie al coronavirus si potrà rinviare l’appuntamento che, con tutta probabilità, verrà fissato in una data molto lontana. Nel frattempo la fame dei partiti potrà trovare un ristoro. Si è visto nei giorni scorsi con il rinnovo del consiglio d’amministrazione della banca senese. Tranne l’amministratore delegato Guido Bastianini che, per obbligo, doveva essere un uomo di banca, nessun altro dei candidati aveva esperienza di banca.

Qualche professore d’università, esperti con matrice politica oppure manager come il presidente Patrizia Grieco che viene dal mondo dell’industria. Non a caso l’incarico precedente era quello di presidente dell’Enel. In realtà Fondo Patrimonio PM. Come ai tempi delle tre Bin (Banca di Roma, Comit e Credito) o della banche d’interesse nazionale come Bnl, Istituto Sanpaolo di Torino. Oppure ancora i grandi banchi meridionali: Banco di Napoli e Banco di Sicilia. Per non parlare, naturalmente del sistema delle Casse di risparmio, autentico collettore di consensi per la vecchia Democrazia cristiana e i suoi alleati nella profonda provincia italiana. Sappiamo tutti com’è finita: salvataggi e accorpamenti dell’ultimo minuto hanno evitato il peggio.

Certo, neanche il sistema bancario privato ha sempre offerto spettacoli di grande valore, a cominciare da Banca Popolare di Vicenza a Veneto Banca. Tuttavia il problema è proprio il ruolo dello Stato: i controlli hanno funzionato fino in fondo? Le agenzie pubbliche chiamate a controllare il mondo della finanza hanno fatto fino in fondo il loro dovere?

IL PROBLEMA VERO

Perché alla fine il problema è tutto qui: non c’è mai stato all’interno dei partiti e nell’opinione pubblica un reale dibattito sul ruolo dello Stato verso il mondo delle imprese. Soltanto lo scontro fra statalisti e liberali, seguaci di Keynes contro Milton Friedman. Come fossero Coppi e Bartali, Rivera e Mazzola. Nessuno che provasse a indicare la strada. Il compito dello Stato è quello di fare l’arbitro: dettare le regole, disegnare il campo da gioco, fischiare i falli. Espellere i furbetti. Niente di questo si è visto in Italia. Come dimenticare l’immagine di Guido Rossi ai tempi della scalata Telecom: «Palazzo Chigi è diventato una merchant bank dove non si parla nemmeno inglese».

L’Iri degli esordi aveva un’idea: promuovere lo sviluppo garantendo le produzioni di base (lo faceva con l’acciaio come l’Eni con il petrolio), investire nell’innovazione e nelle infrastrutture, favorire la concorrenza interna. Oggi anche in casa Fiat (vedi alcune dichiarazioni di Montezemolo) riconoscono che non aver venduto l’Alfa alla Ford nel 1986 era stato un errore. Avere un altro produttore di auto in casa sarebbe stato uno stimolo.

DALL’ACCIAIO AI TELEFONI

In una situazione d’emergenza come l’attuale l’intervento pubblico ci può stare. Sarebbe meglio se fosse più tempestivo e meno caotico (che c’entra il bonus bici o monopattino?). Neanche gli Stati Uniti, culla del liberalismo, dopo il crack di Lehman si tirarono indietro. Salvarono banche, assicurazioni, l’industria dell’auto. Dieci anni dopo è tutto finito. Le aziende sono tornate al capitale privato e il contribuente americano ha fatto un grande affare. I salvataggi ovviamente furono fatti a prezzi di saldo. Le vendite dopo adeguata valorizzazione. E in Italia? Niente. Dopo le dismissioni degli anni ’90 il pendolo è tornato indietro. I partiti, direttamente con il Tesoro o attraverso la Cdp, stanno tornando ad allargare il sistema delle partecipazioni statali. Il desiderio è di riprendersi tutto: il credito, ma anche l’acciaio con la possibile partecipazione in Ilva.

Per non parlare di autostrade e gli aeroporti attraverso l’ingresso nel capitale di Atlantia e di Autostrade per l’Italia. E i telefoni? Il balletto intorno alla rete Telecom va avanti da una decina d’anni. Renzi impose la nascita di Open Fiber come ritorsione contro le resistenze del gruppo telefonico privato. Adesso è come aver costruito due Autostrade del Sole e non trovare più il bandolo della matassa. In questa resurrezione dello Stato padrone mancano solamente le navi (ma con la crisi dei trasporti non si può mai dire) e le merendine. Come dimenticare la stagione della De Rica, della Bertolli, della Pavesi? Sono in tanti a rimpiangere quei tempi.


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