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«QUI si parrà la tua nobilitate…»: è veramente il caso di scomodare il Poeta per descrivere il guado che il nostro Paese deve attraversare. Ma quando, se non ora? Quando avremo un’altra occasione per fare le riforme che aiutino un’Italia stremata a uscire da una ventennale stagnazione? I miliardi in arrivo dal Recovery Fund e dalle altre misure europee di sostegno all’economia tolgono gli alibi finanziari, smontano il “ricatto dei mercati” e offrono su un piatto d’argento le risorse di cui abbiamo bisogno.

TAGLI INACCETTABILI

Negli ultimi vent’anni e passa, quale che fosse il colore dei governi – di centro sinistra, di sinistra-centro, di centro-destra, di destra-centro, gialloverdi o rossogialli… – si sono fatti più trasferimenti che investimenti. Perché? Ecco la risposta: date le strettoie delle regole europee, era più facile tagliare gli investimenti. È vera questa risposta? Sì, è vera, ma è anche inaccettabile. È inaccettabile, tanto più adesso che l’economia internazionale zoppica, quella italiana è il fanalino di coda dell’Unione europea e si allarga il divario fra Nord e Sud. Ancora prima della terribile onda d’urto del virus il Fondo monetario aveva appena rivisto al ribasso i tassi di crescita del mondo per l’anno prossimo, che sarebbero stati i più bassi dal tempo delle Grande recessione.

Ma ora i tassi di (de)crescita sono i più bassi dal dopoguerra e solo paragonabili a quelli della Grande depressione degli anni Trenta. Ecco che in Italia si moltiplicano i piani per le cose da fare. E bisogna ricordare che le “cose da fare” nel contesto europeo promettono un esito che è più della somma delle parti. L’impulso di un Paese si trasmette, attraverso le fitte maglie degli scambi, agli altri partner, rafforzando il primo impatto; talché l’impulso finale del sistema nel suo complesso è maggiore della somma degli sforzi individuali. Ma nell’affannosa congerie delle proposte non si trova ancora la trave portante; una trave che non può essere che l’asse degli investimenti.

LA CULTURA DEL FARE

In una bella audizione alle Commissioni Bilancio e Politiche Ue di Camera e Senato, Dario Scannapieco – vice-presidente italiano della Banca europea degli Investimenti – ha fatto il punto sui piani di rinascita dell’economia italiana: la “cultura del fare”, da troppo tempo assente in Italia (diceva Leo Longanesi come gli italiani preferiscano l’inaugurazione alla manutenzione…) deve tornare sul campo, come successe negli anni migliori della Cassa del Mezzogiorno.

Una interessante fattezza macroeconomica dell’Italia e di altri Paesi sorretti dalle politiche di contrasto all’urto depressivo del coronavirus è questa: dappertutto cresce la propensione al risparmio delle famiglie. I soldi giustamente elargiti per sostenere i redditi delle famiglie non vengono interamente spesi, perché la gente teme il futuro. Il moltiplicatore della spesa pubblica per trasferimenti scende, dato che i soldi ristagnano. In queste condizioni, il solo moltiplicatore efficiente ed efficace è quello della spesa per investimenti.

SPESA IN CONTO CAPITALE

Fra le componenti della domanda, quella che produce il maggior effetto sull’economia è rappresentata dalle spese in conto capitale. E, in una situazione nella quale gli investimenti privati rimangono alla finestra perché le imprese non sanno quale sarà la domanda per quello che producono, tocca agli investimenti pubblici dare la spinta decisiva.

Sia consentito ricordare gli studi che dimostrano come il moltiplicatore degli investimenti nel Mezzogiorno sia ancora più alto. Insomma, oggi è un dovere economico, sociale e morale quello di far ripartire gli investimenti pubblici. Non da oggi l’Italia ha bisogno di buona spesa pubblica, più bisogno ancora rispetto agli altri Paesi, per molte buone ragioni: addensamento demografico, conformazione orografica, dissesto idrogeologico (si stima che l’80% di tutte le frane del continente europeo siano in Italia), inquinamento, conservazione di un immenso patrimonio artistico, dualismo territoriale, contrasto alla criminalità organizzata…

DUALISMO TERRITORIALE

Fra queste ragioni, il dualismo territoriale è il problema sicuramente più urgente, la piaga più grave e allo stesso tempo l’opportunità più grande per sanare le ferite della crescita e restituire a un’Italia disunita – fra breve saranno 160 anni dall’Unità – una stagione di sviluppo inclusivo e sostenibile. Scannapieco ci ricorda come nel decennio 2009-2019 in Italia la spesa pubblica per investimenti sia calata dal 3,7 al 2,2% del Pil. Ma non conta solo la quantità, nel “fare” gli investimenti. Conta anche la qualità: c’è molto da risparmiare, sol che si ricordi come, secondo la Corte dei conti Ue, l’Italia è il Paese con il più alto costo di costruzione delle linee ferroviarie per l’AV (28 milioni di euro per Km., contro i 12 della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia, con tempi di realizzazione che sono da 2 a 3 volte superiori). Le raccomandazioni sulle cose da fare non sono nuove: infrastrutture, digitalizzazione, ambiente e risorse naturali, sostegno alle Piccole e Medie imprese in funzione di coesione sociale.

Da dove cominciare? Qui bisogna evitare di cadere nella trappola dei “massimi sistemi”, con piani grandiosi e omnicomprensivi. Questo può valere per alcuni grandi progetti come l’Alta velocità per il Mezzogiorno. Ma l’Italia ha un disperato bisogno di occuparsi dei “minimi sistemi”.

LA BUROCRAZIA

Sabino Cassese, sul Corriere della Sera, ci ha detto che, per aprire una gelateria, «sono necessari fino a 73 adempimenti, con 26 enti diversi,  e un costo di 13 mila euro, secondo una accurata ricerca svolta dalla Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa». E che i «sei miliardi del contratto di programma con l’Anas dovevano essere erogati entro novanta giorni. Ne sono passati più di novecento. E tutto ciò senza che la procedura abbia superato gli scogli del Cipe, dei diversi ministeri, della Corte dei conti, dei pareri parlamentari».

Per risolvere questi problemi non sono necessari più soldi. È solo necessaria una maggiore intelligenza, più volontà e più tempo, un tempo da sottrarre alle congiure di Palazzo e da impiegare invece a far funzionare meglio l’esistente.


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