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L’ intervento a cura di Galli e Gottardo (GG) “Il falso mito dello “scippo” delle risorse del Nord a danno del Sud…” sostiene invece che l’allocazione delle risorse pubbliche privilegia il Mezzogiorno per circa 40 Mld all’anno. Non commento le rischiose incomprensibili riserve sui Conti Pubblici Territoriali che fanno parte integrante del sistema statistico nazionale e le cui analitiche disaggregazioni territoriali, rappresentano una fonte affidabile oltre che indispensabile.

Rinvio ai rilievi della nota tecnica elaborata dalla Svimez limitandomi ad alcune considerazioni. Contrariamente al titolo, GG riconoscono come “veri” sub condicione i 60 miliardi: «…. la dichiarazione del presidente della Svimez circa i 60 miliardi sottratti ogni anno dal Nord al Sud …. è vera soltanto se si considera l’intera P.A. allargata».

La cifra annuale è stata confermata (per l’ultimo decennio) nell’audizione parlamentare alla Commissione Finanze dal ministro degli Affari regionali il 16 ottobre 2019. Il riferimento al decennio non è casuale: dal 2009 vige la mai applicata legge 42 di attuazione del 119 della Costituzione. Pur “veri” i 60 miliardi sarebbero impropria misura della mancata perequazione perché non si può fare riferimento alla P.A. allargata, senza tenere conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni).

La spesa previdenziale e quella concernente le partecipate sarebbero da escludere perché «non possono essere distribuite diversamente sul territorio». L’obiezione, lungi dal convincere, rafforza la scelta di considerarle per l’evidente impatto inerzialmente indotto – ad esempio – sul finanziamento dei fabbisogni con il vigente criterio della spesa storica in attesa dei fantomatici Lep. Sorprende la motivazione di cassare le due voci perché «considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica».

Con riferimento alle pensioni, null’altro si dice; non c’è traccia anche se pudicamente aleggia l’assunto, arbitrario, che si tratta di reddito differito a fronte di contributi versati. Anche su questo aspetto il silenzio è comunque imbarazzante.

Sulla spesa previdenziale, val bene rinfrescarsi la memoria sugli effetti che metodo retributivo e criterio a ripartizione utilizzati per determinare e liquidare le pensioni hanno avuto e continuano ad avere sulla fiscalità generale in uno scenario in cui il Paese passa dalla crescita a una stagnazione sempre più acuta. L’effetto previdenziale è la progressiva riduzione di un surplus contributivo rispetto agli anni della crescita che – a regole date – lo riduce fino ad annullarlo per tradursi in deficit con l’effetto che quote più o meno rilevanti della spesa per pensioni vanno a carico della fiscalità generale, cioè sono spesa pubblica. Nel nostro caso il «privilegio fiscalmente neutrale» che la dinamica del monte contributi assicurava ai pensionati erogando una pensione superiore al loro apporto contributivo è finito da anni. Il privilegio di una platea di pensionati è da tempo a carico dei contribuenti – loro compresi – che lo finanziano con la fiscalità generale. Questa dinamica ha imposto noti interventi: primo tra tutti il tramonto del metodo retributivo avviato con la riforma del 1995 e il lento passaggio al metodo contributivo che, pur accelerato dalla riforma del 2012, si concluderà non prima del 2036. Da allora “scalini e scaloni” quote 100, ecc. sono espedienti rocamboleschi per indorare la pillola che dobbiamo ingoiare non per un destino cinico e baro ma per un’economia segnata dal trend negativo del Sud e l’affanno crescente del locomotore del Centro-Nord ove si concentra la porzione più ampia e più titolata a percepire pensioni che godono del bonus erogato a carico della fiscalità generale.

Dunque un osservatorio, prima dei “miti”, dovrebbe nel caso specifico analizzare il nesso tra spesa previdenziale e fiscalità generale invece di eluderlo e cassare la previdenza dal conto in virtù della destinazione coatta dei destinatari. A nostra conoscenza, risulta a carico della fiscalità generale tra il 25% e il 28% della spesa (F. Patriarca e S. Patriarca, La Voce info) sia per le pensioni di anzianità (quelle notevolmente più consistenti e diffuse al Centro-Nord in tutte le varianti, incluse le baby pensioni o le mitiche formule di X anni sei mesi e un giorno), sia quelle di vecchiaia (più frequenti al Sud con prestazioni più ridotte, sempre inclusive di un “bonus” derivante dal permanere di una quota di retributivo).

L’informazione è utile per diradare la nebbia che avvolge quei 60 miliardi che Galli e Gottardo, travisando la posizione Svimez in merito, definiscono lo “scippo”. Quello che preme alla Svimez non è giocare a guardia e ladri bensì porre all’ordine del giorno l’esigenza di chiarire i termini di una così anomala, inquietante discrasia tra quota di spesa pubblica e quota di popolazione. Una anomalia che impone di interrogarsi sulla allocazione delle risorse facendo rigoroso riferimento alle regole vigenti. Si impone quindi la necessità di individuare i canali che la alimentano, con analisi dettagliate; un tema al quale i nostri osservatori non sembrano inclini a prestare attenzione stando alla sbrigativa metodologia per sbarazzarsi della spesa per le pensioni, che invece c’entra e come!

Fa specie che a Galli non torni alla memoria l’evidenza degli effetti redistributivi della spesa pensionistica analizzati nel 1992 da Fiorella Padoa Schioppa Kostoris in una ricerca dell’Ente Einaudi della Banca d’Italia: «è qui documentato… che il sistema delle pensioni di vecchiaia e anzianità penalizza fortemente il Mezzogiorno… i giovani lavoratori dipendenti… al Sud verranno chiamati a pagare le pensioni…. ai molti vecchi prevalentemente residenti al Centro-Nord». «Le redistribuzioni intergenerazionali a danno delle regioni italiane meno sviluppate…. sono gravi, e sicuramente non conclamate né desiderate», esse rappresentano un «… derivato di un regime contributivo a ripartizione, realizzato… in un’economia di tipo dualistico». Le misure tese «… ad abbattere il disavanzo pensionistico… non solo non sembrano diventare meno distorsive ma siano addirittura destinate a diventare più perverse».

Eludere il problema depennandolo non è una veniale sbadataggine. A confondere le idee, contribuisce poi la sommaria liquidazione delle società partecipate argomentando che, operando esse sul mercato e in alcuni casi essendo “anche” quotate in Borsa, non possono conformarsi a criteri confliggenti con gli interessi degli azionisti. Osservazione lecita e doppiamente irrilevante visto che, tra le partecipate, quelle decisive nel distorcere la spesa per investimenti non sono quotate; ci si scorda financo di citare sia Anas che Ferrovie, la maggiore responsabile della distorsione territoriale. Inoltre – quotate o non – quando ci si riferisce alla localizzazione, fino a prova contraria l’andamento di Borsa dipende non dal dove si fanno gli investimenti ma semmai del se e per cosa si fanno. Depennando a destra e manca, GG arrivano a ridurre i 60 a 16 miliardi: è la base operativa utile per l’ultimo assalto.

Entra così in scena il costo della vita, calibrato sul pesce pilota di un “povero” (diavolo) del Sud. È un sempre verde molto caro ad accademici e a manager, al di sopra del Volturno, ai quali potremmo prescrivere come efficace antidoto una ricerca della Banca d’Italia apparso sulla Rivista Economica del Mezzogiorno (D’Alessio 2019). Il diverso costo della vita (dei poveri), è il coniglio estratto dal cappello che rimette le cose a posto, dimostrando che – tolto tutto quello che si deve togliere – rivalutando opportunamente quel poco che resta, è il Sud a godere di un trattamento di favore di circa 40 Mld rispetto al Centro-Nord.

Sappia dunque il Mezzogiorno che povertà educativa, emigrazione sanitaria, infrastrutture inesistenti sono apparenze smentite da ben 40 miliardi di Euro assicurati dalla realtà virtuale delle PPP. Perché dunque prendersela con la spesa storica, invocare il rispetto delle regole e della Costituzione? Stando così le cose, l’Unione Europea non ha davvero capito nulla quando pone come prima condizionalità per accedere alle risorse di “affrontare gli atavici problemi” per ridurre le disuguaglianze e rafforzare la coesione: quando, in parole povere, chiede una radicale perequazione orientata a politiche di sviluppo. Riuscirà a farglielo capire il CPI? O siamo noi a non capire, anzi a non voler capire?


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