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Uno dei maxi sequestri di cocaina al porto di Livorno

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Basterebbe una lotta seria alle mafie per abbattere il debito pubblico italiano. Per combatterla e contrastarne il potere, bisogna seguire la traccia dei soldi, come insegnava Giovanni Falcone. “Follow the money” dicono ancora oggi negli States i vertici dell’Fbi, ricordando la lezione del giudice palermitano ucciso nella strage di Capaci del 1992. C’è un tesorone da 3.000 miliardi di euro che è stato messo da parte dalle varie organizzazioni mafiose e sarebbe tutto custodito nelle casse di conti esteri.

È quanto contenuto nel recente report della Fondazione Caponnetto. «Di fronte a un valore del genere che permetterebbe di risanare il debito pubblico italiano non si può che rimanere esterrefatti dal silenzio attorno a tale questione. Siamo di fronte a una Italia divorata dalla mafia» spiega il presidente Salvatore Calleri. Una cifra monstre che, di fatto, supererebbe addirittura quella del passivo dello Stato italiano. Secondo la Banca d’Italia, infatti, al 30 novembre 2020 il debito pubblico si era attestato a 2.586,5 miliardi di euro rispetto ai quasi 2.587 miliardi di inizio mese e a fine 2019 il debito pubblico italiano era pari a poco meno 2.410 miliardi. «Se fossimo in un Paese normale avremmo sguinzagliato i servizi segreti per trovarli e con quei fondi avremmo risanato tutto. Invece niente» sottolinea Renato Scalia, ex ispettore della Dia, che è anche uno dei curatori del dossier.

«Oggi in piena pandemia covid nonostante gli allarmi lanciati all’Europol e dalla Dna siamo di fronte alla totale sottovalutazione del problema, basti pensare all’enorme tesorone che è a disposizione delle mafie italiane all’estero – viene sottolineato il report – A livello internazionale esistono diversi broker delle organizzazioni criminali italiane e la Fondazione Caponnetto insieme all’Omcom (l’Osservatorio Mediterraneo sulla Criminalità Organizzata e la Mafia) ritiene che all’incirca il valore del c.d. tesorone sia presumibilmente pari a 3.000 miliardi di euro». La criminalità, con tutto quel denaro a disposizione riesce ad avere una grande influenza sulle più grandi banche in tutto il mondo, soprattutto in momento di profonda crisi e grosse difficoltà come quello che stiamo vivendo. Un tesorone che, se inseguito e perseguito, oggi risolleverebbe le sorti dello Stato. Ma cosa ha bloccato e tuttora blocca quest’azione di recupero di danaro frutto di proventi di attività illegali? La politica ha messo in secondo o, addirittura, in terzo piano la lotta mafia, questo è ciò che pensano i curatori del dossier.

«Oggi ci troviamo nel momento più buio degli ultimi trent’anni. La lotta alla mafia non è più un tema che trova spazio politico o che viene trattato – si legge nel report – Una parte delle istituzioni e del ceto politico guarda con fastidio chi si batte contro la mafia e la sua cultura senza essere un membro dell’apparato giudiziario o investigativo. Ovviamente sbagliano e cadono in un tranello mafioso, in quanto la forza della lotta alla mafia sta proprio nel fatto che antimafia sociale ed istituzionale sono due facce della stessa medaglia. Tra l’altro è bene ricordare che l’antimafia istituzionale, rispetto a quella sociale, sconta un ritardo di decenni. Con l’unica eccezione del Prefetto Mori. Contadini, sindacalisti e giornalisti hanno anticipato nel secondo dopoguerra le istituzioni, sollecitandole e opponendosi ai loro silenzi. Chi si serve di questo luogo comune divide l’antimafia, e la mafia ne gode. Il giudice Caponnetto ha ben mostrato con il suo esempio la sintesi perfetta e possibile delle due diverse facce della medaglia».

IL PORTO DI LIVORNO

Altro che Gioia Tauro. È il porto di Livorno l’attracco più amato dalle mafie. Uno scalo diventato un punto di riferimento dei clan di ‘ndrangheta e camorra per il traffico di cocaina e rifiuti. È lo scenario viene fuori dalla descrizione sulla situazione dello scalo toscano disegnata nel report “Livorno e Val di Cornia 2021” della Fondazione Antonino Caponnetto. «La criminalità organizzata può avvalersi di “aderenze” nello scalo portuale di Livorno» viene denunciato nel dossier, ponendo l’attenzione anche sui dipendenti infedeli del porto. Non è da trascurare il fatto che lo scalo livornese è stato sottovalutato, dal momento che appena quattro anni fa, la relazione della Dia (luglio-dicembre 2017) lo relegava in una minuscola nota a piè di pagina. «Nel caso specifico del narcotraffico – è scritto in quella relazione – il porto di Livorno potrebbe costituire un importante punto di arrivo sul territorio nazionale di carichi di stupefacenti».

Sono cambiati di molto i tempi e le cose se si comparano le due relazioni, anche se va sottolineato che i report della Direzione Investigativa Antimafia (dal 2018 ad oggi) hanno invece corretto il tiro e dato risalto al ruolo sempre più centrale del porto toscano. In dieci anni di sequestri, le forze di polizia italiane hanno quindi fermato nel solo porto di Livorno cocaina per circa 270 milioni di valore all’ingrosso e più di mezzo miliardo di euro di possibile incasso per chi voleva commerciarla nelle piazze di spaccio. Negli ultimi anni le cosche maggiormente colpite dall’azione coordinata dalla magistratura sono stati i Piromalli-Molè, Mancuso, Alvaro, Crea, Bellocco, Paviglianiti, Fiarè, Pitto-Prostamo-Iannello per la ‘ndrangheta. E ancora, i sodalizi camorristi dei Gionta, Birra Iacomino, Fabbrocino, Casalesi. Infine, ultimo arrivato, la cosca Ciarelli di Latina il cui reggente Luigi Ciarelli è stato condannato a 12 anni in primo grado proprio dal Tribunale di Livorno per un carico di cocaina da ben 84 chili.


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