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LE DIMISSIONI di ieri del premier Giuseppe Conte frenano l’iter di provvedimenti vitali per la salvaguardia del sistema economico provato dalla pandemia e per garantire al Paese la possibilità di un rilancio. La crisi politica aveva già costretto il governo a rivedere i tempi del nuovo decreto Ristori, il quinto, che dovrebbe alleviare le sofferenze di aziende, professionisti, famiglie e lavoratori di fronte alle restrizioni che, con la pandemia che non allenta la sua corsa e i ritardi nella consegna dei vaccini, resteranno in vigore ancora a lungo.

L’ascesa al Colle di Conte, e l’annuncio dell’avvio delle consultazioni, hanno congelato quindi il varo del provvedimento che lascerebbe così per il momento in cassaforte la dote di 32 miliardi resi disponibili dal via libera del Parlamento a un nuovo scostamento di bilancio, che vanno ad aggiungersi ai 108 miliardi di extra deficit deliberato lo scorso anno per finanziare le misure anti crisi. Quanto al Recovery Plan, sono saltati gli incontri in programma con le istituzioni locali e le parti sociali, ma almeno i lavori nelle commissioni parlamentari proseguono, consentendo di portarne avanti il cammino, seppur ancora più rallentato, ed evitare la paralisi totale.

LA CRISI FRENA I RISTORI

I tempi del decreto rischiano di allungarsi, quindi. Non se ne parlerà prima della «prossima settimana, o poco dopo», ha ammesso Marco Leonardi, consigliere del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, dando comunque rassicurazioni: «Lo scostamento è stato votato e i soldi sono disponibili, le strutture tecniche stanno lavorando. C’è un rallentamento e se la crisi si risolverà rapidamente sarà molto meglio», ha affermato, per poi ribadire: «Né per i ristori né per il Recovery c’è alcun allarme, non si perderà nulla ma sarà importante avere una direzione politica».

Uno spiraglio è sembrato arrivare dalla direttiva dalla Presidenza del Consiglio dei ministri che traccia i limiti dell’azione di governo, secondo cui sono da considerarsi «disbrigo di affari correnti» anche tutti «gli atti urgenti – ivi compresi atti legislativi regolamentari ed amministrativi – necessari per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid 19 e ogni relativa conseguenza». In serata, poi, qualcuno ventilava la possibilità di un Consiglio dei ministri nel weekend per per dare il disco verde al decreto che proroga lo stop all’invio delle cartelle fiscali in scadenza il 31 gennaio.

L’ALLARME USURA E NUOVE POVERTÀ

Intanto, nell’attesa che la politica trovi la sua direzione, e il Paese un nuovo governo, il Covid continua a spargere le sue macerie e il bollettino con il conto dei danni economici continua ad allungarsi, creando nuove povertà e aumentando l’esposizione di famiglie e imprese al rischio usura e alla criminalità organizzata. A lanciare l’allarme è stato ieri il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, introducendo i lavori del Consiglio episcopale permanente.

La pandemia, ha detto, ha reso «sempre più pressante la frattura delle nuove povertà rispetto alle quali i dati sono deflagranti». I numeri dell’Osservatorio della Consulta Nazionale Antiusura Giovanni Paolo II rilevano, «un quadro preoccupante» che va dalle famiglie e piccole imprese familiari divenute insolventi – sono 3 milioni di nuclei, per circa 7,5 milioni di persone fisiche – a quelle che avevano già varcato la soglia di rischio e sono ora in fallimento “tecnico” per debiti – sono 2 milioni e 250 mila unità, per 6,5 milioni di persone; infine a quelle a rischio di usura – quantificabili in 350 mila famiglie e in 800 mila persone.

Secondo le rilevazioni della Caritas, dal confronto tra maggio-settembre del 2019 e lo stesso periodo del 2020, emerge che l’incidenza dei ‘nuovi poveri’ è passata dal 31% al 45%: «quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta», ha sottolineato Bassetti. Dall’allarme sociale dei vescovi all’sos delle categorie produttive. Nel settore delle professioni, nel primi sei mesi del 2020 la pandemia ha cancellato oltre 30mila liberi professionisti – soprattutto donne -, costretti ad abbandonare la propria attività a causa della crisi.

A questi, secondo i dati di Confprofessioni, si aggiungono circa 170 mila lavoratori indipendenti su una platea di oltre 1,5 milioni di lavoratori autonomi bloccati dal primo lockdown.

L’APPELLO DELLE IMPRESE

Senza tregua l’agonia del turismo e della ristorazione. Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, nell’esprimere preoccupazione per l’impasse provocato dalla crisi politica, e sollecitando il governo a intervenire «prima che sia troppo tardi», ha ricordato che i danni subiti dalle strutture ricettive e termali a causa della pandemia, con una perdita di flussi turistici e di fatturato superiore al 50% che in alcune località è arrivata anche all’80%.

Mentre la Fipe-Confcommercio di Catania ha lanciato lo slogan “Basta, dal 1° febbraio riapriamo“, il presidente dell’associazione nazionale, Lino Enrico Stoppani, ha richiamato le forze politiche alla responsabilità: «Il Paese non può permettersi tatticismi o distrazioni – ha affermato – vista la drammaticità del momento che impone decisioni rapide e contesti stabili. I pubblici esercizi e la ristorazione italiana sono in ginocchio. I danni subiti mettono a repentaglio la tenuta economica dell’intero comparto e il momento drammatico impone il richiamo ai migliori valori del Paese. Vi imploriamo, fate presto!».


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