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Come è andata l’economia del Sud nell’annus horribilis 2020? Un anno in cui l’attività economica ha subito la più forte contrazione dai tempi – orribili anch’essi – della Grande depressione degli anni Trenta.

L’Istat ha pubblicato una prima stima degli andamenti 2020 di Pil e occupazione per grandi circoscrizioni territoriali. Stime più complete saranno disponibili solo a fine anno, e per adesso queste cifre sono frutto di dati sul campo e di proiezioni econometriche.

Cioè a dire, in molti casi i dati non sono ancora disponibili e allora si sfrutta una correlazione, validata in passato, fra il dato mancante e un’altra variabile già disponibile. Stime così costruite, avverte l’Istat, sono passibili di revisioni anche ampie. Ma contentiamoci, e guardiamo a questi primi dati: cosa ci dicono su come le diverse parti d’Italia hanno retto l’urto del virus?

Prima di rispondere a questa domanda sulla base delle stime Istat, facciamoci un’altra domanda: in assenza di dati, e conoscendo le grandi linee della risposta dell’Italia alla crisi, cosa ci saremmo aspettati quanto ai differenti impatti sul Nord e sul Sud?

Ci saremmo aspettati che, paradossalmente, un’economia più arretrata resiste meglio a questo tipo di crisi rispetto a una più avanzata. Questo perché un’economia più avanzata è anche una più integrata, dove i mille fili delle interdipendenze strutturali legano strettamente manifattura e servizi, logistica e consumi, fornitori e clienti… Ora, la crisi da coronavirus ha colpito proprio quelle interdipendenze, ha costretto la mobilità all’immobilità, ha tagliato quei mille fili…

Un’economia più arretrata è anche più flessibile, il sommerso (che fa parte del Pil) riesce per sua natura a resistere meglio rispetto all’emerso. In Italia non ci sono molte grandi imprese, ma certo ce ne sono più nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, e sono proprio le grandi imprese che nei giorni più bui del 2020 hanno dovuto chiudere. Ci saremmo aspettati insomma che, di fronte a “frecce e dardi della sorte avversa” il Mezzogiorno avrebbe potuto resistere meglio – o, per essere più precisi, meno peggio – rispetto al Centro-Nord.

I dati dell’Istat – vedi tabella – confermano le conclusioni a priori, anche se le differenze non sono poi così marcate. Il Pil in Italia è caduto dell’8,9%, con un -9.0% del Centro-Nord e un -8,4% nel Sud. Guardando ai singoli settori, questo ‘meno peggio’ del Mezzogiorno vale per tutti i comparti della produzione, eccetto che per “commercio, trasporti, pubblici esercizi e telecomunicazioni”.

In questo comparto la caduta – che in ambedue le ripartizioni è la più grave fra tutti i settori – è più pronunciata al Sud. In assenza di informazioni più dettagliate su un comparto così composito, probabilmente questo riflette la minorità delle infrastrutture di trasporto nel Mezzogiorno: mobilità e logistica sono state più direttamente colpite rispetto ad aree dove strade e autostrade, trasporto su strada e su rotaia sono più efficienti.

Veniamo all’occupazione. Qui non ci sono quasi differenze rispetto alla caduta degli occupati fra Nord e Sud: siamo al -2.1% per l’Italia, al -2.0% per il Centro-Nord e al -2,1% per il Mezzogiorno. Qui hanno giocato probabilmente il sistema di sicurezza sociale e le misure messe in moto per preservare l’occupazione, dal blocco dei licenziamenti alla Cassa integrazione allargata. Le sole differenze degne di nota sono nell’agricoltura e nelle costruzioni. In agricoltura c’è stato un leggero aumento (+0,5%) degli occupati nel Centro-Nord (che forse riflette la spinta a uscire dai centri urbani “infettati” e a cercare opportunità di impiego nelle campagne, dove in effetti da tempo si sperimentano nuove forme di coltivazione e di colture) e una analoga percentuale di riduzione al Sud (dove la quota di occupati nel settore primario è più alta e da tempo è in corso una tendenza strutturale alla riduzione dell’occupazione).

Nel settore delle costruzioni gli andamenti sono più difficili da spiegare. È il solo comparto in cui si sia registrato un aumento dell’occupazione, sia al Nord che al Sud: addirittura, nel Mezzogiorno gli occupati sono aumentati del 2,4% (+0,6% al Centro-Nord), pur in presenza di un’analoga caduta del Pil settoriale (-6% o poco discosto). Forse ha giocato il ruolo di ‘rifugio’ per l’attività nelle costruzioni: coloro che sono stati espulsi da altri comparti hanno cercato lavoro – con ogni probabilità poco remunerato – in un comparto magmatico quale è quello delle costruzioni (che comprende anche i lavori di ristrutturazione e di manutenzione del patrimonio immobiliare, che hanno beneficiato di generosi incentivi fiscali).

Insomma, l’attività economica nel Mezzogiorno ha tenuto meglio (meno peggio) di quella del resto del Paese. Questo “meno peggio’ è dovuto alle ‘ragioni sbagliate’: la relativa arretratezza del Sud. Si vorrebbe che questa paradossale tenuta sia l’annuncio di una serie: dove il ‘meno peggio’ si trasformi in ‘più meglio’, e non per le ragioni sbagliate ma per le ragioni buone: per una politica di sostegno pubblico che finalmente esca dalle secche di decenni di iniquità nella distribuzione delle risorse e liberi le energie nascoste sfruttando quel giacimento di crescita potenziale che è il Mezzogiorno. Probabilmente la ripresa oggi in corso (se non sarà deragliata dalla variante Delta) sarà più pronunciata al Nord, per ragioni simmetriche a quelle descritte sopra. Ma dal 2022 in poi “si parrà la nobilitate” del PNRR nel condurre finalmente a convergenza le due parti di un Paese che da troppo tempo soffre un’amara cesura nei redditi, nell’occupazione e nel benessere.


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