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Un Paese o due. Questa la domanda che ormai da anni ci poniamo nel guardare all’Italia. Molti dei parametri che riguardano il Sud ed il Centro Nord sono infatti molto differenti. Dal reddito pro capite al tasso di occupazione, dagli occupati nel manifatturiero a quelli in agricoltura, dalle esportazioni pro capite al numero di presenze turistiche per abitante, e potremmo continuare a lungo per descrivere le parti dell’Italia che potrebbero appartenere a due nazioni diverse.

L’obiettivo che ci si è posti ormai dai primi del ‘900, perché al momento dell’unificazione le due realtà erano più vicine, è stato quello di diminuire le differenze, di comporre il divario. In molti abbiamo detto che le politiche che si stavano portando avanti, quelle che prevedevano una locomotiva sulla quale investire e dei vagoni che avrebbero avuto vantaggi dal tracimamento che sarebbe provenuto dal Nord, erano sbagliate. E che l’esigenza era quella di avere due locomotive sulle quali investire, una al Nord è una al Sud, le quali avrebbero potuto lavorare in sinergia e dare ricchezza a quel Mezzogiorno, e quindi al Paese, che avrebbe potuto continuare a sostenere i consumi nazionali con il reddito dei 21 milioni di abitanti, che in quelle aree risiedono.

È prevalsa la tesi di Tabellini, già rettore della Bocconi non uno qualunque, che prevedeva di investire su Milano anche se Napoli poteva manifestare difficoltà ed andare indietro. Quella di puntare sulle eccellenze, anche universitarie, che ovviamente sono quasi tutte localizzate al Nord. Quella di concentrare tutti i grandi eventi nel Nord o al massimo arrivare fino a Roma. Quella di fermare la A1 a Napoli o al massimo portare l’alta velocità fino a Salerno. Quella di non costruire l’attraversamento stabile sullo stretto di Messina, dimenticando il porto di Augusta, posizionato vedi caso di fronte a Suez, e puntare invece su Genova e Trieste, peraltro quello che si sta continuando a fare, rispetto ai porti, ancora con il Pnrr; quella di far affondare lo stivale pensando che sarebbe stato ininfluente rispetto allo sviluppo dell’intero Paese.

Avevamo previsto che così “il coccodrillo affogava” e che non mettere a regime il 40% del territorio e pensare di utilizzare come riserva occupazionale il 33% della popolazione sarebbe stato un errore madornale, che poteva trascinare tutto il Paese in una fase di decadenza, difficilmente arrestabile.

E che poteva anche mettere in discussione gli equilibri politici dell’intero Paese, perché se una parte comincia a sentirsi marginale e dimenticata, senza avere il diritto di restare oltre che quello di partire, senza una sanità che funzioni adeguatamente, senza infrastrutturazione e spesso anche senza le utilities necessarie, per cui l’acqua la devi comprare e per l’energia elettrica devi avere i generatori in azienda, senza parlare del digital divide, è facile che possano avere prevalenza movimenti di protesta che possono mettere in discussione gli equilibri complessivi del Paese.

Forti di una propaganda che aveva a disposizione megafoni nazionali, dei cosiddetti giornaloni e media del Paese, mentre soffiava il vento di una Lega separatista e secessionista, che impauriva anche le forze di sinistra, risultate corresponsabili, si è pensato che il massimo risultato fosse quello di puntare ai livelli essenziali di prestazioni (Lep), peraltro mai attuati. Dando per scontato che una uguale spesa pro capite fosse un obiettivo irraggiungibile, come peraltro anche adesso viene statuito da massime responsabilità governative nazionali.

Seguendo una linea totalmente opposta a quella perseguita dalla Germania nei confronti dell’ex DDR, che ha investito risorse, quelle sì veramente consistenti, con un rapporto malgrado la popolazione di quell’area fosse di soli 17 milioni, molto più consistente di quanto fatto dal nostro Paese per il Sud, del quale ci si è voluti beffare, e non era la prima volta, sottraendo le risorse ordinarie e sostituendole con quelle straordinarie che inviava l’Europa. L’ultima operazione che si vorrà portare a compimento sarà quella dell’autonomia differenziata, che consentirà di statuire, anche normativamente, che possono esistere un paese di serie A ed un paese di serie B, contrariamente a quanto finora affermato dalla nostra Costituzione.

La speranza posta in Draghi e nel recente piano di ripresa approvato, considerate le esigenze enormi di oltre 3 milioni di posti di lavoro necessari perché questi territori vadano a regime, potrebbe essere un’ultima spiaggia sulla quale sperare di approdare. I recenti dati, comunicati dalla Svimez, nelle anticipazioni del rapporto, presentati in Parlamento ci danno ulteriori elementi di preoccupazione. Perché invece di recuperare il Sud ed il divario nei confronti del Nord, assistiamo ad un recupero all’incontrario, ad una deriva verso il basso, delle regioni centrali del Paese, che si stanno avvicinando sempre di più verso livelli di sottosviluppo delle regioni più povere. Allontanandosi dai valori medi europei, rispetto ai quali anche le regioni centro settentrionali perdono posizioni.

Confermando la teoria che o si cresce tutti o tutti si affonda, ancora non adeguatamente compresa, ma che i dati dimostrano essere assolutamente quella vera. D’altra parte ha una sua logica molto convincente quella che vede il nuovo sviluppo armonico di tutto il Paese la migliore condizione non solo per mantenere l’unità nazionale necessaria, ma anche per utilizzare meglio territori e persone. Sapendo perfettamente che la cosa migliore non è spostare la gente da un lato all’altro del Paese, come si è visto anche nella recente pandemia, ma quella di sviluppare tutte le aree, con le loro caratteristiche, ma certo non illudendosi che con una popolazione di 21 milioni di abitanti si possa pensare per tali zone solo alla agricoltura ed al turismo o al reddito di cittadinanza.

Purtroppo quelle che doveva essere una risposta interessante alle esigenze della creazione di nuovi posti di lavoro, che sono le Zes, non si stanno adeguatamente seguendo, mentre la classe dominante estrattiva meridionale continua da occuparsi del bene dei propri clientes.

Ed allora l’operazione va fatta su due ambiti: uno che riguardi la classe dominante locale che va messa in riga perché persegua il bene comune anche contro i propri interessi spiccioli, con un centralismo di supplenza, e la seconda rispetto alla visione nazionale di una classe dirigente che ancora non riesce ad aver chiaro che lo sviluppo armonico è l’unico possibile e che non ci si può salvare da soli, magari diventando fornitori terzisti dell’industria nazionale manifatturiera tedesca. L’Italia è un grande Paese, lo sta dimostrando anche nello sport e alle Olimpiadi, che deve riprendere ruolo e direzione dello sviluppo interrotto e lo potrà fare valorizzando uomini e territori, tutti.


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