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Il quartier generale della Tim a Roma

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Attaccata alla rete perché il futuro di Tim è diventato molto incerto. Svanita la fusione con Open Fiber che avrebbe dato consistenza al piano della fibra ottica nazionale il gruppo guidato da Luigi Gubitosi deve inventarsi una partita del tutto nuova.

Non sarà facile visto anche il sostanziale fallimento dell’accordo con Dazn sul calcio. Era un progetto su cui il gruppo contava molto per rinnovarsi. Dopo meno di quattro mesi dovrà essere rinegoziato Un altro fallimento finito sul tavolo del consiglio d’amministrazione di Vivendi primo azionista di Tim con il 23,7%.

Il gruppo francese non può essere certamente soddisfatto del suo investimento. Ha già perso un paio di miliardi e rischia di bruciarne altri considerano che la gestione non si riprende. Luigi Gubitosi, la cui poltrona è sempre più traballante, nel terzo trimestre ha dovuto annunciare ancora un risultato insoddisfacente mentre la concorrenza vola. Vodafone brilla a Londra battendo le stime degli analisti e alzando le stime. Iliad cresce sempre anche se mette in stand by debutto nel fisso in Italia.

Gli occhi restano così puntati su Tim e alle contromosse che l’ad Luigi Gubitosi metterà in campo per recuperare redditività e accontentare gli azionisti. Un’attesa che ha fatto arrampicare il titolo fino a 34 centesimi con un miglioramento del 10% dall’inizio di novembre. Intanto continua la vita ‘ordinaria’ della società con le riunioni dei comitati interni ma, dopo il cda straordinario e Vivendi che intende seguire passo passo le mosse di Gubitosi anche una riunione già in calendario finisce sotto i riflettori. Presieduto da Federico Ferro Luzzi, con Paolo Boccardelli, Paola Bonomo, Marella Moretti e Ilaria Romagnoli il comitato controllo e rischi ha fatto il punto sul contratto con Dazn, e il collegio sindacale dovrebbe fare lo stesso.

Tutto questo perché c’è molto nervosismo in giro e le voci a Piazza Affari corrono. Dopo la riunione del consiglio di amministrazione convocato con urgenza da Vivendi le voci su un possibile interesse di Kkr si sono intensificate nonostante le smentite. Corrono fino a Roma da dove essendo coinvolta la Cdp e un’infrastruttura fondamentale come la rete – devono arrivare diversi via libera.

La situazione precipita. La quotazione di Tim, nonostante il recupero degli ultimi giorni ha perso il 20% negli ultimi sei mesi, i progetti su Fibercop (la società della rete secondaria che va dagli armadietti in strada e arriva nelle case dei clienti di proprietà di Tim) e Open Fiber (60% Cdp e 40% fondo Macquaire) si sono arenati e anche i dati dei primi nove mesi del 2021 non hanno certo esaltato gli analisti con ricavi e margine operativo lordo in contrazione. 

Da qui l’accelerazione delle voci che parlano del fondo Kkr intenzionato a lanciare un’Opa su Tim. E poi fare lo spezzatino per rientrare dall’investimento.  Si partirebbe da Tim Brasile che agli attuali valori di mercato le garantirebbe incassi per poco meno di 3,5 miliardi. Poi Inwit, torri e tralicci per le antenne, dove il 15% di Telecom vale circa 1,5 miliardi. E si arriva fino a Fibercop, Noovle e ovviamente alla rete primaria. L’unico asset rispetto al quale non esiste un vero e proprio valore di mercato. La società che detiene l’infrastruttura fa registrare un margine operativo di circa 200 milioni, per cui restando sui multipli correnti, potrebbe essere ceduta a poco meno di due miliardi. C’è però un problema non trascurabile. Sulla società della rete è collocato gran parte dell’immenso debito del gruppo. Sottrarla al bilancio consolidato imporrebbe una serie di trasferimenti per non sottrarre la garanzia alle banche.  Basta fare due conti e vedere che il colosso finanziario Usa potrebbe assicurarsi una Tim finalmente ripulita dai debiti e pronta a tuffarsi negli investimenti necessari per rafforzare il business della telefonia. Mentre – eliminato il tappo rappresentato da Vivendi – lo Stato sarebbe libero di portare avanti i suoi progetti sulla rete.

Sarebbe la fine di Tim per come la conosciamo. Il gruppo è ai minimi di sempre, sia dal punto di vista del suo valore di Borsa sia per perimetro di attività e redditività. Negli ultimi 23 anni, dalla privatizzazione del 1998 in poi, Tim è diventata una società domestica, a parte il Brasile. I numeri rendono l’idea del declino. Nel 1999, all’indomani dell’Opa dei “capitani coraggiosi”, Telecom poteva contare su 27,1 miliardi di ricavi, 12,2 miliardi di margine operativo lordo e utili per 2,4 miliardi.

Alla fine del 2020 il fatturato si è ridotto a 15,8 miliardi, l’ebitda si è praticamente dimezzato a 6,7 miliardi così come l’utile netto. Dunque si può dire che Telecom per dimensioni è circa la metà di quella che era 20 anni fa mentre il suo livello di indebitamento è rimasto quasi lo stesso, 23,3 miliardi contro i 25,5 che furono infilati nelle varie società del gruppo al termine della scalata del secolo. Ora il nuovo giro di valzer.


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