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La borsa di Milano

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I mercati festeggiano i successi dell’economia italiana. Luglio è finito con un rialzo complessivo del 5,2% di cui il 2,15% nella seduta di venerdi. Un dato positivo in linea con le altre Borse europee, che potrebbe riportare un po’ di ottimismo sui mercati, che hanno vissuto fino adesso umoralmente il rialzo dei tassi di interesse della Fed e della Bce, il galoppo dell’inflazione e lo spauracchio della recessione.

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A far pendere il barometro verso il sereno ci sono i dati del Pil italiano, arrivato al 4,6%, e che ha recuperato completamente il deficit con la pandemia. Le prospettive appaiono incoraggianti. Proprio il timore della recessione innescata dalle banche centrali hanno portato ad un calo dei prezzi di molte materie prime. Il rame ha perso in due settimane un quarto del suo valore, così come l’alluminio e lo zinco; anche le quotazioni dell’acciaio sono in flessione.

Del ribasso dei prezzi hanno “beneficiato” anche diversi beni alimentari: il grano attualmente viene scambiato a circa il 30% in meno rispetto alle scorse settimane. Sul cereale influisce anche una stabilizzazione del mercato dopo le violente oscillazioni causate dalla guerra, così come le prospettive di un possibile accordo per la ripresa dell’export dall’Ucraina. Da questi riscontri parrebbe che le strategie delle banche centrali inizino a produrre degli effetti. Il rialzo dei tassi di interesse rende, infatti, più costosi investimenti e prestiti e questo provoca un rallentamento dell’economia, quindi pressioni al ribasso sui prezzi.

I primi a risentire degli effetti dell’aumento dei tassi sono i prezzi industriali, in un secondo momento anche quelli al consumo e quindi l’inflazione, ma l’ipotesi di un crollo della domanda si riflette anche sul prezzo del petrolio che nell’ultimo mese ha perso il 16% del suo valore, venendo scambiato sulla borsa di Londra sotto i 105 dollari al barile e su quella di New York sotto i 101 dollari.

Ad incidere anche qui è la paura di una recessione e di un conseguente calo della domanda, oltre all’indebolimento dell’euro che negli scorsi giorni ha raggiunto la parità col dollaro (fenomeno che non accadeva dal 2002), ponendo fine ad un lungo periodo in cui la valuta UE era sempre stata la moneta più forte. Inizialmente gli analisti ritenevano che un euro debole potesse essere un fattore positivo per le esportazioni; adesso lo considerano, invece, un ulteriore elemento di pressione sui prezzi come inflazione importata.

Con il crescere dei timori di recessione e il calo dei prezzi di diversi metalli e materie prime agricole, nelle ultime settimane i mercati obbligazionari hanno prezzato un significativo inasprimento dei tassi delle banche centrali. Allo stesso modo, il ridimensionamento del prezzo del greggio potrebbe essere un toccasana per i Paesi occidentali, in gran parte consumatori di energia.

Al contrario, non è una buona notizia per la Russia che vede diminuire gli extra-profitti che servono per finanziare la sua costosissima guerra contro l’Ucraina. Da inizio anno il guadagno del petrolio, infatti, è saliti intorno al +30%. Non è meno problematica la questione del gas naturale in Europa che supera i 165 euro per megawatt/ora, complici anche gli scioperi in Norvegia che potrebbero portare a una riduzione della produzione fino al 25%.

Per i paesi consumatori è quindi urgente agire subito, mettendo un tetto al prezzo di gas e petrolio, anche per sganciarsi dal giogo ricattatorio di Mosca.


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