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Il ministro per il Pnrr Raffaele Fitto

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UN CASO unico in Europa, un miracolo italiano che porta la firma del ministro Raffaele Fitto, l’esponente del governo che ha riunito nelle sue mani tre dossier da far venire i brividi: la coesione, il Pnrr e gli Affari Europei. Ci voleva la pazienza politica dell’ex Dc e la costanza tecnica di chi conosce bene la macchina dell’amministrazione per tagliare il traguardo della quarta rata del Pnrr e di essere ad un passo dalla quinta.

Eppure Fitto si è messo a lavoro senza mai rilasciare un’intervista, dosando le parole e rifuggendo dalle polemiche, anche quelle definite da lui stesso “lunari” sui ritardi di un Piano predisposto dai governi precedenti e solo ereditato da quello attuale.

Eppure non si è mai tirato indietro. L’interesse del Paese prima di ogni altra cosa, ha ripetuto, lasciando alle spalle la tentazione della rassegnazione e gettando iln cuore fino alla scadenza del 2026, data entro la quale occorre spendere fi no all’ultimo euro di questa versione post-Covid del piano Marshall che rappresenta un unicum per l’Europa, il primo serio tentativo di una nazione che emette bond sul suo futuro e non si limita a rendicontare i numeri della finanza per costruire patti orientati alla stabilità più che alla crescita. E’ stato un lavoro certosino: mentre tutti (o quasi) si stracciavano le vesti sui ritardi italiano e sulla grande occasione sprecata, Fitto entrava ed usciva dalle stanze di Bruxelles per riscrivere, risistemare, convincere, adattare i contenuti del Piano, renderlo compatibile con le nuove scadenze, stralciare gli impegni impossibili da rispettare, trovare un filo conduttore nelle decine di migliaia di progetti, anche micro, finiti nel calderone del Piano.

Ma la vera innovazione è stata nel metodo inaugurato in questi difficili 14 mesi. Inutile, infatti, presentare le richieste a Bruxelles senza aver prima concordato con i tecnici della Commissione cosa era in linea con i regolamenti e le scadenze del Piano e cosa, invece, andava radicalmente rivisto. I ritardi nell’erogazione della seconda rata ma, soprattutto, nella terza rata del Pnrr hanno funzionato un po’ da laboratorio per capire come bisognava andare avanti e recuperare il tempo perduto.

Ma quello che è passato sottotraccia nel l’operazione Pnrr è stata la grande riforma della macchina pubblica italiana degli investimenti realizzata in sordina, senza annunci, ma dà l’esatta dimensione di una svolta in un Paese che da sempre è stato l’imbarazzante fanalino di coda nella corsa all’utilizzo dei fondi europei, per avendo il più profondo e antico gap territoriale fra i Paesi avanzati. Il successo dell’operazione-Pnrr parte proprio da qui, dall’aver messo insieme i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con tutti gli altri a disposizione del Paese, da quelli strutturali finanziati dall’Europa a quelli nazionali della Coesioni. Secondo il principio dei vasi comunicanti e non delle repubbliche indipendenti. Contestualmente, si sono calati i progetti nel nuovo contesto economico e geopolitico causato dai carri armati russi in Ucraina, la conseguente guerra mondiale delle materie prime e il ritorno dell’inflazione, oltre che da ultimo il rallentamento globale legato anche al nuovo conflitto in Medio Oriente. Tutto in pieno accordo con le istituzioni europee.

Si arrivati, così, alla rimodulazione del piano italiano, spoostando una parte delle risorse se RepowerEu che, altrimenti, sarebbe rimasto praticamente al palo. Il risultato è che ora il Pnrr ha un valore di 194,4 miliardi di euro (122,6 miliardi di euro in prestiti e 71,8 miliardi di euro in sovvenzioni) e copre 66 riforme, sette in più rispetto al piano originale, e 150 investimenti. Non è soltanto una questione di numeri. Dietro la matematica dei saldi contabili ci sono riforme che dovrebbero imprimere una svolta di qualità al sistema Italia, dalla Giustizia al sistema degli appalti pubblici, dalla competitività alla concorrenza. Senza considerare, poi, gli impegni sul fronte dell’energia, della transizione verde e del digitale, gli investimenti per le infrastrutture, a cominciare dalle ferrovie. Una rimodulazione del Piano che è avvenuta nel solco riformista avviato dal precedente governo Draghi e portato avanti nel segno della modernizzazione del Paese.

Un disegno che Fitto ha voluto completare con l’avvio, fra qualche giorno, della Zes unica del Mezzogiorno, un tassello che si inserisce a pieno titolo nel disegno riformatore del Paese che parte dal Pnrr e vuole incrociare quel “mondo capovolto” che sta redistribuendo ricchezza e funzioni fra i Nord e i Sud del pianeta restituendo al Mediterraneo un ruolo mai visto negli ultimi decenni. Siamo, naturalmente, a metà strada. Sono state vinte battaglie importanti ma la sfida dell’attuazione è ancora lunga. Non bisogna abbassare la guardia. Ma questo, un ministro come Fitto, lo sa già.


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