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Paolo Scaroni, ex ad di Eni

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Siamo felici che due persone innocenti siano state riconosciute tali, e dunque che la giustizia abbia, al momento della sentenza, svolto bene il suo servizio. Ma l’assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto, dei due uomini che rappresentano il vertice dell’Eni, non può impedirci di pensare che qualcosa non vada bene nel funzionamento della macchina giudiziaria.

I pm hanno fatto il loro mestiere, hanno commentato gli avvocati difensori e dunque nessun rimprovero può essere loro mosso perché la macchina della giustizia serve proprio a separare i colpevoli dagli innocenti, con una procedura che spesso è anche dolorosa. Ma non è la prima volta che assistiamo allo spettacolo di un esito finale che mostra uno strabismo tra uffici del pubblico ministero e quelli della magistratura giudicante.

Anche questo strabismo può essere considerato dovuto e persino un segno di buona salute, ma fino ad un certo punto. Qual è il limite? A nostro parare il limite sta nella linea neanche tanto sottile che separa l’infamia dall’onorabilità, sia degli uomini che delle aziende, specialmente le grandi aziende che costituiscono ancora il meglio del Dna del Paese. I due imputati sono stati giudicati per reati infamanti: avere intascato o comunque distratto ingenti somme di denaro per corrompere personale politico nigeriano.

L’ad Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni non hanno fatto nulla di simile. Nulla, zero. Questo è almeno quanto emerge dalle decisioni prese dal presidente del Tribunale milanese Marcio Tremolada che ha assolto non soltanto i due imputati come persone ma anche l’Eni come società chiamata in causa nel suo complesso per la legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. C’erano anche altri imputati minori, tutti assolti: fra loro i quattro ex dirigenti Shell e l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, tutti con formula piena: “il fatto non sussiste”.

Il Tribunale è arrivato alla conclusione che abbiamo detto – assoluzione totale per totale inesistenza dei fatti attribuiti – dopo aver spulciato diligentemente migliaia di pagine di documenti amministrativi. Molto bene, ottimo lavoro verrebbe da dire, perché soltanto una analisi accurata può essere considerata attendibile quando ne va dell’onorabilità e della professionalità di persone che operano in un settore di importanza primaria nel Paese e che spendono in tale azione la loro faccia, il loro nome, il loro onore. Dunque, è inevitabile chiedersi – se il Tribunale come sembra ha preso la decisione che spiccava nella sua evidenza quanto a prove esibite – come sia stato possibile che una serie di professionisti di prestigio personale e nazionale possano essere state portate alla sbarra ed esposte alla orrida notorietà che immancabilmente genera un’accusa di corruzione, per di più internazionale e in spregio di ogni legge e tradizione.

Il processo riguardava la procedura per ottenere la licenza di sfruttamento del campo petrolifero Opl-245 nigeriano e per arrivare a concludere che quella licenza è stata ottenuta in modo limpido e lecito, senza un se e senza un ma – se dobbiamo stare alla lettera della sentenza – resta l’amara curiosità di conoscere meglio i criteri che ispirano l’azione della pubblica accusa della giustizia italiana, se e quando porta in giudizio cittadini e imprese con prove che poi il giudice giudicante considera di valore nullo.


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