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Una veduta suggestiva di Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio

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E ADESSO, che Italia ci aspetta? Adesso che propaganda e tatticismi scolorano e i fatti emergono con la loro durezza; adesso che il panorama politico si presenta desertificato e le soluzioni hanno la consistenza dei miraggi; adesso non si può scantonare dal dato più crudo: il governo di centrodestra M5S-Lega ha fallito e quello di centrosinistra Cinquestelle-Pd pure.

Adesso, appunto, che facciamo? La crisi è di sistema. Servirebbe una ricetta, uno scatto all’altezza dei problemi.

Tuttavia inutile farsi illusioni e intonare la consolante giaculatoria della retorica. La verità è che manca un regista-timoniere; non c’è una rotta bensì solo ghirigori di effemeridi peraltro intrisi di strumentalità; latitano strategie con un minimo di lungimiranza, la Terra promessa del risanamento e dello sviluppo invece di avvicinarsi si allontana.

Sono quasi tre decenni che gli italiani scrutano l’orizzonte e compulsano la scheda elettorale per capire a chi affidarsi. Hanno provato prima Prodi l’esperto; poi Berlusconi l’uomo col sole in tasca; poi l’austero Mario Monti, poi ancora Renzi il rottamatore e infine si sono gettati nelle braccia di Beppe Grillo, il capocomico. Ogni volta una speranza, ogni volta una delusione. E adesso arriva l’horror vacui di un cammino che non riesce a diventare percorso, dove le risorse del Recovery non producono lo sforzo unitario verso le riforme bensì negli occhi di tanti il brillío dell’accaparramento.

Il M5S, pilastro della legislatura nonché detentore dell’apriscatole per spazzar via la Casta al sapore di tonno, è naufragato in appena un biennio, sgonfiato nei consensi e nelle capacità di governo. Giuseppe Conte, che di quelle aspettative era il vessillifero, ha indossato l’abito più caro alla politica italiana, il trasformismo, pensando così di poter sfilare su qualunque passerella. Il Pd non è riuscito a strapparsi dalla fronte il marchio di junior partner di una coalizione in cui magari ha immaginato di “incivilire” i grillini finendo non poche volte a doverli inseguire.

Matteo Salvini ha raggiunto l’apice del gradimento e poi da quella montagna è rotolato giù senza (ancora) riuscire a comprendere la differenza tra leadership e premiership. L’altro Matteo, il fiorentino, ha dimostrato di essere maestro nel fare e disfare: senza mai rinunciare ad offrire l’immagine di chi dribbla tutti e arriva ad un passo dalla porta ma invece di fare goal torna indietro innamorato del gesto. Se manca il timoniere, figuriamoci la rotta. L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia è piombata come una slavina sul terreno connettivo di un Paese già dissanguato da decenni di mancata crescita. Il credito europeo che Conte si è guadagnato e che gli va riconosciuto è evaporato come nebbia al sole nell’incapacità di trasformarlo in progetti praticabili e misure di grande portata.

La Ue si è sgolata a dirci che il Next generation era una partita da vincere a tutti i costi: alla fine la richiesta di riforme è diventata l’ennesima geremiade delle occasioni perse. Per chi ha dubbi basta ricordare il debito pubblico già enorme e adesso obbligatoriamente esploso con raffiche di scostamenti al bilancio; i 358 decreti attuativi che mancano per tirar giù Dpcm e provvedimenti urgenti dall’empireo delle conferenze stampa a reti unificate alla realtà dei conti correnti prosciugati dalla pandemia (la cifra vale per il Conte II: il Conte I ne ha lasciati 165 inevasi in eredità); la governance del Recovery tuttora in alto mare; il Mes finito stritolato nelle spire delle fumisterie ideologiche; Quota 100 specchietto per le allodole della nuova occupazione mai arrivata; i 2700 navigator assunti per battere la disoccupazione e a fine aprile pronti per ineluttabile nemesi a diventare a loro volta disoccupati; il piano vaccinale sempre più pericolosamente adagiato sulla china dei banchi a rotelle.

Fino ad arrivare al blocco dei licenziamenti che a fine marzo scadrà: tranquilli, che problema c’è, basta prorogarlo. La politica si è inebriata di populismo e il Palazzo si è ubriacato di demagogia. Poi però arrivano i conti da pagare: la crisi di governo minaccia di essere solo il primo di una lista sciaguratamente lunga. Adesso tutti guardano al Colle invocando lumi che in tanti hanno contribuito ad offuscare.

Ma il capo dello Stato non è il Signore delle stelle. Non ha bacchette magiche da agitare e neppure interventi miracolistici da sfoderare. Può chiedere serietà e spirito di servizio a chi, se ne aveva, lo ha dilapidato. Leggenda vuole che gli italiani nei momenti più tragici sanno tirar fuori risorse inaspettate. Beh, quel momento è arrivato.


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