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Silvio Berlusconi e Matteo Salvini

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Ora che il dream team di Mario Draghi è pronto, il fermo immagine della maggioranza che sostiene il presidente del Consiglio va fatta col grandangolo: altrimenti tutti i partiti non c’entrano. Poiché il momento è eccezionale, altrettanto eccezionale è il sostegno parlamentare che si esprimerà nel voto di fiducia la prossima settimana a favore dell’ex presidente Bce. Praticamente ci sono tutte le forze politiche rappresentate alla Camera e al Senato: a quanto pare solo Fratelli d’Italia voterà contro, e neppure è detto.

Si tratterà di un consenso quasi unanime per un governo che alimenta aspettative enormi, e sulle cui spalle gravano enormi responsabilità.

Insomma “draghismo senza limitismo” con numeri che non trovano riscontro nel passato, almeno quello prossimo. Gli esecutivi di unità nazionale, di larghe intese o come li si voglia definire segnano momenti straordinari come in passato fu per la lotta al terrorismo: il 16 marzo 1978, a poche ora dal rapimento di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, il quarto esecutivo guidato da Giulio Andreotti ottenne alla Camera 545 voti favorevoli su 630 disponibili. Votarono contro solo Msi, Democrazia Proletaria, Partito Liberale e il drappello dei quattro deputati radicali.

ALLA PROVA DEL VOTO

La prossima settimana si vedrà in Parlamentato quanti voti otterrà Draghi. Il punto politico è capire se si tratti solo di una espressione di forza oppure se dietro tanta adesione si celi una o più debolezza. Per capirlo è necessario partire da una promessa obbligata. E cioè che la mossa di Mattarella ha messo tutti con le spalle al muro: rifiutare la scelta del capo dello Stato avrebbe significato andare dritti sparati ad elezioni anticipate che al di là delle manifestazioni di bandiera e al netto dei pericoli esposti da Sergio Mattarella, praticamente nessuno vuole. Dunque il via libera al nuovo governo è sostanzialmente obbligato. Poi, una volta che la nave è salpata, c’è il problema della navigazione.

LE SFIDE

Il barometro dei prossimi mesi, tra vaccinazioni e Recovery Plan, segna burrasca. Draghi lo sa, ma anche questo per lui finisce per rappresentare un punto di forza più che di debolezza. Sarà infatti davvero difficile opporsi a misure che pure loro risultano di fatto necessitate. E che tuttavia avranno conseguenze sui partiti e sui loro elettorati.

Le tensioni risulteranno inevitabili ma al tempo stesso proprio la larghezza della maggioranza farà sì che risultino bilanciate, che planino su tutta la maggioranza, di volta in volta premiando l’una o l’altra forza politica ma alla fine non scompaginando nessuna. Il premier non ha alcun interesse a farlo; i leader non ne hanno di esacerbare una situazione che era e resta emergenziale. E ancora. Draghi capisce benissimo che vellicare i temi maggiormente divisivi, tipo la prescrizione o il carico fiscale, produrrà scintille: per usar il suo linguaggio, alimenterà uno scontro “cattivo”. Eppure non farà sconti perché quello stesso scontro da cattivo diventa buono se costringerà i partiti a venire a patti con i loro interessi per far risaltare quello nazionale.

Un esempio per tutti: il ministero della Transizione ecologica. Vedremo quali competenze avrà e quanti fondi a disposizione. Però è evidente che l’Italia è in quel fondamentale settore – come per molti altri – è indietro, e che la marcia avrà come doppio guardrail la tutela ambientale da un lato e lo sviluppo sostenibile e necessario dall’altro. In sintesi: niente No Tav, niente Terra dei Fuochi.

Le tabelle della Ue dimostrano come la crescita italiana sia la Cenerentola o quasi in Europa: uno dei compiti principali del nuovo governo sarà rovesciare quella gerarchia.

SCENARI FUTURI

È immaginabile che Salvini e Berlusconi trovino giovamento dalla nuova condizione perché se i sondaggi saranno confermati, al momento del voto erediteranno un Paese meno problematico e con alcune riforme decisive completate o almeno avviate. Sul fronte opposto, M5S e Pd non potranno agitare il drappo rosso del nemico alle porte. Farlo era possibile – e magari conveniente – se si fosse votato nel 2019, una volta andato in crisi l’esecutivo gialloverde. All’epoca fu scelta una strada diversa e ora se quei partiti “scartano” rispetto all’equilibrio che si va formando rischiano di pagarne il prezzo proprio nelle urne.

È ovvio che l’ampia maggioranza che si è formata potrebbe diventare quella che elegge il nuovo capo dello Stato, trasferendo sul Colle l’inquilino di palazzo Chigi. Sembra un copione già scritto: si vedrà, bisogna essere cauti perché l’elezione del presidente della Repubblica è una corrida dove a chi parte favorito capita in corso d’opera (e di scrutini) di smarrire il sentiero del successo.

Tuttavia anche qui vale lo stesso ragionamento di sopra. Uscire dalla “coalizione della responsabilità” (e stavolta il termine va usato nella sua specifica accezione) che deve garantire l’Italia fino all’appuntamento del voto per il Quirinale, produrrebbe uno sconquasso che poi risulterebbe molto complicato riassorbire. Pure in quel caso la strada verso le elezioni diventerebbe un capitombolo: chi rompe rischierebbe di pagare un prezzo alto. È una delle regole non scritte ma ferie della politica italiana: che chi provoca le elezioni, poi le perde.


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