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Giuseppe Conte e Enrico Letta

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Enrico Letta presenta tutte le caratteristiche per rispondere alla crisi che il PD sta attraversando in questa molto specifica contingenza storica. Dunque non va bene come segretario.

D’accordo, un po’ lo diciamo per gusto della provocazione, ma un po’ è anche vero e proviamo a spiegarlo. L’ex presidente del Consiglio che fu sbalzato di sella con malagrazia da Matteo Renzi nel 2014 ha il profilo disegnato su misura per rispondere ad una serie di sfide che la politica presenta oggi. Innanzitutto è un uomo che proviene da una filiera molto qualificata, ma ha dimostrato di non essere confinato nel recinto dei politici di professione.

Nasce infatti come uno dei giovani brillanti che Nino Andreatta riunisce all’AREL e sembra destinato ad un futuro da studioso (si dice che Andreatta fosse deluso perché non si era messo in maniera canonica su quella strada, vai a sapere se è vero). Dunque ha una formazione da “ufficio studi” più che da caminetto di corrente.

Non viene dalla filiera dell’ultimo PCI che ha formato più gente allevata nei miti della nostalgia di una certa età dell’oro, che non politici disposti a mettersi alle spalle il passato. Anzi, venendo dalla dissoluzione piuttosto traumatica della Dc ha dovuto imparare presto che i tempi cambiano e che bisogna imparare a navigare in acque incognite.

Ha maturato multiformi esperienze anche in campo internazionale. Non si può dimenticare che era stato sul punto di acquisire un ruolo importante nella UE nell’estate 2014, fino ad essere indicato da alcuni come possibile Presidente, ma fu bruciato da Renzi che voleva a tutti i costi la Mogherini in Commissione. La sua scelta di abbandonare la politica tradizionale per accettare un ruolo all’Istituto Internazionale di Scienze Politiche a Parigi lo ha mantenuto in quello che gli specialisti sanno benissimo essere “un grande giro” delle intelligenze che contano nel formare gli orientamenti in politica estera.

Proprio la sua scelta di lasciare il parlamento per un ruolo nel mondo degli studi testimonia, cosa piuttosto rara, che non è il classico politico di professione che senza quella non ha, come si dice, né arte, né parte. Un elemento non secondario in questi tempi di pregiudizi sulle “poltrone”, ma anche di disperata ricerca delle competenze.

Al tempo stesso non può essere considerato dal partito il cosiddetto “papa straniero”: ne è stato vicesegretario, parlamentare, membro del governo e non si è mai dissociato da esso nonostante sia stato trattato non proprio coi guanti bianchi. Soprattutto potrebbe essere l’uomo giusto al momento giusto, perché il momento conta, eccome. Il PD ha due problemi. Il primo è tornare ad essere un centro di elaborazione progettuale, che è qualcosa di diverso e soprattutto di più che mettersi a strologare litanie sul futuro e le sue alleanze.

Deve farlo necessariamente, perché si trova a misurarsi di necessità con un nuovo premier come Mario Draghi che è per essenza uomo di progetti e di realizzazioni. Letta ha la statura per reggere la dialettica necessaria con questa fase.

Il secondo problema è quello che al PD pone il nuovo M5S a guida Conte. Piaccia o meno c’è tutta una narrazione che presenta l’avvocato/professore pugliese come rilevante uomo di governo, molto considerato a livello internazionale, verso cui guarda come riferimento una parte né piccola, né marginale delle élite burocratiche ed economiche. Si può discutere quanto questa narrazione sia fondata, ma esiste e gioca un suo ruolo, come si vede da una certa progressione nei sondaggi sui gradimenti verso i Cinque Stelle a discapito del PD.

Se il partito del Nazareno non vuole che questa presa sull’opinione pubblica si consolidi, deve mettere in campo una figura che oggi possa recuperare consensi nei sondaggi sfruttando almeno un po’ di quelli di Draghi e che domani possa competere con il nuovo M5S nell’indicazione del leader di coalizione per il governo (se, come appare ancora certo,ci sarà un maggioritario che spinge per una coalizione coi pentastellati).

Fra il resto tutto potrebbe essere accelerato dalla successione a Mattarella: se al suo posto andasse davvero Draghi, il cambio di governo e a questo punto le elezioni anticipate diventerebbero passaggi obbligati. Altrimenti si slitterà al 2023, ma comunque si porrà il tema di rivedere gli equilibri della geografia politica.

Per tutte queste ragioni, Letta non è il candidato più gradito all’attuale marasma che si trova nel PD. Troppi si illudono di poter risolvere tutto senza rimetterci le loro posizioni di potere (e non hanno imparato nulla dal flop dell’operazione Conte o morte) e temono i rimescolamenti che, complice il cambio di clima che arriva col governo Draghi, si potrebbero produrre. Non hanno molte armi per opporsi all’arrivo di Letta, se non avvelenare i pozzi (non ci serve il Salvatore della Patria), o accentuare le fibrillazioni in modo da dissuaderlo ad entrare in quel ginepraio su cui si è abbattuto l’anatema di Zingaretti, prontamente rilanciato dalla Sardina e da Casalino, il che dovrebbe anche far riflettere un po’ su chi ha paura dell’arrivo dell’esule volontario a Parigi.

Dovrebbero essere in questo momento i cosiddetti “ex renziani” a scombinare le carte, trovando finalmente il modo di togliersi di dosso un’etichetta ingiusta (perché sono quelli che hanno avuto il coraggio di non eseguire Renzi in un’avventura che non portava da nessuna parte) e di mostrare che sono rimasti dove sono perché consapevoli che la rinascita del PD non si fa coi colpi di teatro. Se ne saranno capaci e soprattutto se Letta alla fine accetterà la sfida lo vedremo presto.


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