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Il ministro Marta Cartabia

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Nel Palazzo e nelle piazze spira un venticello che, come sussurrato nel Barbiere di Siviglia, “insensibile, sottile, piano piano va ronzando nelle orecchie della gente, e le teste ed i cervelli fa stordire, e fa gonfiar”. Non si tratta della calunnia cantata da Giacchino Rossini bensì della voglia di una Tangentopoli bis col segno rovesciato, che dalla politica colpisca i giudici. Fu un devastante errore allora, lo sarebbe anche oggi. Ma ciò non toglie che i magistrati possano immaginare di sottrarsi “reagendo fermamente” al giudizio popolare di referendum legittimamente e costituzionalmente promossi e svolti.

All’inizio degli anni ‘90, i partiti storici, figli delle ideologie e degli equilibri politici del Dopoguerra, furono spazzati via non da una autoriforma politica bensì da un ciclone giudiziario. I partiti avevano perso la loro capacità di indirizzo e il discredito popolare, anche alla luce di fenomeni corruttivi, li aveva sommersi. Caddero come alberi rosi all’interno dalle termiti e anche il Pds che pensava di trarne vantaggio alla fine ne fu travolto sotto il profilo politico.

Oggi, come dicevamo, il vento è cambiato e soffia all’opposto. L’infinita guerra fra correnti, il verminaio di interessi e intrecci personali fatto emergere dal caso Palamara, la lunghezza biblica dei processi e lo strapotere dei Pm con risultanze spesso sconcertanti nei processi: tutto concorre ad una perdita di prestigio e di credibilità delle toghe e mina uno dei pilastri del sistema democratico.

Per avere una dimensione concreta della situazione basta ascoltare le parole della Guardasigilli Marta Cartabia laddove richiamandosi alla tragica morte del giudice Livatino ha confermato con parole inequivocabili la crisi che sta attraversando il mondo giudiziario: “Una crisi di credibilità e, ai miei occhi più grave, di fiducia dei cittadini. Bisogna fare di tutto affinché il giudice torni ad avere quella statura che la Costituzione gli chiede nel momento del giuramento”. Di cosa sia fato questo “tutto” è sempre Cartabia a precisarlo: “Cambieremo ciò che si deve cambiare sulle sanzioni disciplinari, sui sistemi elettorali, sulle progressioni di carriera”.

Dunque sulle toghe s’abbatte lo stesso tifone che sradicò i partiti politici della Prima repubblica e il richiamo alla fiducia persa dei cittadini ha rintocchi cupi. Chi ricorda l’inchiesta Mani Pulite può avvertire lo stesso sapore di cenere. Allora ci furono tanti che alimentarono il tifone distruttivo battendo la grancassa della palingenesi possibile e necessaria del Paese attraverso la magistratura, lasciando intendere che la politica cattiva sarebbe stata divelta dalla giustizia buona, con un impeto di supplenza che avrebbe rigenerato il sistema.

Era un gigantesco e strumentale abbaglio. Lo sarebbe anche adesso se si alimentasse sempre strumentalmente un sentimento di rivalsa mosso da una impropria voglia di voler pareggiare i conti.

Allora come adesso, l’autoriforma è un abbaglio. Valse allora per i partiti, vale oggi per le toghe. Ma adesso c’è l’occasione del Recovery che può essere decisiva. La Ue reclama una riforma complessiva della giustizia cui proprio il ministro Cartabia sta lavorando tra difficoltà, ostacoli, freni, intoppi. E, soprattutto, totem ideologici: vedi alla voce prescrizione. Tuttavia la riforma, complessiva e articolata su più versanti, si dimostra tanto necessaria quanto inevitabile.

È giusto e indiscutibile che questo compito tocchi al Parlamento, pur se provoca un certo stordimento il fatto che alcuni di coloro che adesso invocano il suo intervento sono gli stessi, dentro e fuori le aule, che in più fasi hanno moraleggiato sulle Camere piene di inquisiti, sull’inadeguatezza dei loro componenti e perfino sulla loro funzione: nient’altro che “scatolette di tonno” da aprire e magari gettare nell’indifferenziata a favore di meccanismi e sistemi democrazia diretta.

Ma il sacrosanto lavoro parlamentare non può diventare impedimento per la raccolta di firme referendarie. Se partiti, associazioni, singoli cittadini intendono avvalersi di questo strumento non c’è ragione per bloccarli. È giusto, come detto, allontanare eventuali intimidazioni e tentazioni di rivalsa: naturalmente sempre che esistano. Riforme e miglioramenti sono lo scudo migliore contro ogni “venticello” che minaccia di creare mulinelli di danni e devastazioni. Ma se il Parlamento diventa preda di inerzie e impedimenti – e sulla giustizia i ritardi sono ormai così conclamati da risultare inaccettabili – allora il ricorso all’arma referendaria come pungolo e stimolo è una mossa legittima, che può perfino diventare necessitata.

Sotto questo profilo, la reazione dell’Associazione nazionale magistrati, con l’annuncio di reazioni “ferme” è sconfortante. Le giustizie “domestiche” sono sempre in odore di sospetto. Se i magistrati, interpretando al meglio il loro ruolo e i loro compiti, vogliono espungere la mala pianta del correntismo e del carrierismo, lavorino fianco a fianco del Guardasigilli e delle forze rappresentate in Parlamento per definire un impianto riformista all’altezza dei problemi.

Senza timori verso iniziative di consultazione popolare che per prima cosa riguardano temi che la riforma non tocca e che poi possono essere superate con provvedimenti ad hoc. In un sistema democratico la sovranità appartiene al popolo. Chi intende usarla per azioni di rivalsa, la snatura. Chi usa il proprio usbergo per sottrarsene, la nega. All’interno di questi paletti, c’è il libero confronto, il dialogo costruttivo e la virtuosa competizione per trovare le soluzioni più conformi ai bisogni dei cittadini. C’è un bivio riformista da affrontare e voltarsi dall’altra parte non si può.


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