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Matteo Salvini

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La risposta di Mario Draghi è secca, com’è nel suo stile: nessuna patrimoniale, nessun aumento di tasse, sugli immobili meglio la trasparenza dell’opacità di rendite vecchie di decenni. Il reflusso di Matteo Salvini sta nella norma: ma quale crisi di governo, se vogliono uscire dalla maggioranza lo facciano Letta o Conte, noi ci siamo per garantire la diminuzione e non l’aumento delle tasse. Ghirigori post voto («Ma il governo non può seguire il calendario elettorale», taglia corto SuperMario) che finiscono come era prevedibile: il Consiglio dei ministri vara comunque e senza battere ciglio la delega fiscale per non contravvenire agli impegni presi con la Ue che garantiscono l’arrivo dei fondi stabiliti; la Lega prima ci sta e poi fa marcia indietro con tanto di strepiti e altissimi lai; l’immancabile annuncio di un prossimo faccia a faccia tra il premier e il leader del Carroccio volto a suturare le ferite. In attesa del prossimo round.

La domanda è: quanto può durare così? E prima ancora: cosa davvero vuole Salvini che alza ogni volta barricate per poi smussarle fino alla inevitabile rimozione? Partiamo dalla seconda. Che il Capitano, oramai ex, sia in difficoltà è evidente. I voti scemano e con essi la forza contrattuale. I titoli dei giornali secondo cui il vero vincitore della tornata amministrativa è stato Draghi gli hanno fatto salire la pressione. Il corollario di commenti secondo i quali ai partiti della strana e larga maggioranza non resta che adeguarsi al cronoprogramma di palazzo Chigi, provocato un (politico) travaso di bile. Di qui la necessità di dimostrare di essere sempre lui a comandare il gioco e che non c’è alcuna volontà di accucciarsi in un ruolo meramente di contorno. Nella convinzione che così facendo i tanti elettori leghisti che sono rimasti a casa o, orribile dictu, hanno votato Fdi, tornino nei ranghi. Una continua giostra sulle montagne russe come in fondo è il carattere dell’uomo.

Peccato che così ci si logori. Peccato che fare la voce grossa e poi non arrivare mai alle estreme conseguenze invece che recuperi elettorali rischi di aumentare incertezza e confusione. Due sono le considerazioni su questo versante che si impongono. La prima richiama alla mente la battuta di Walter Veltroni riguardo Massimo D’Alema: “Conosce un solo schema, Dc-Pci”. Anche per Salvini si potrebbe dire che conosce e pratica un solo copione: cercare la strambata laddove possibile con tanto di enfasi mediatica, e virare quando capisce che la manovra non produce gli effetti sperati.

È successo nel 2018 all’indomani delle elezioni, allorché il capo leghista dopo essersi presentato in campagna elettorale in uno schieramento ed aver preso in quell’ambito più voti di tutti, invece che mettersi alla sua guida ha saltato il fosso e stretto un patto di governo con l’M5S a quel tempo sotto l’egida di Luigi Di Maio. Idem dopo il trionfo elettorale europeo e quel siderale 34 per cento: invece di capitalizzare lo straordinario consenso all’interno dell’alleanza gialloverde, l’ha strappata nei mojiti del Papetee cercando le urne. Ed è finita come è finita. Adesso, dopo il via libera al tentativo di SuperMario e detto sì alle larghe intese, appena può scalcia come un cavallo “scosso” (quello che nel palio di Siena corre senza fantino per averlo disarcionato), frenando tuttavia quando arriva sull’orlo del precipizio della possibile crisi.

Difficile stabilire se questo atteggiamento è il più idoneo per riguadagnare i consensi perduti oppure se finisce per alienarglieli definitivamente. Di certo crea una voragine con l’ala “governista” di Giorgetti e con i governatori: ad occhio, non un buon affare.

La seconda considerazione riguarda il centrodestra complessivamente inteso. È evidente che esiste un problema di leadership dello schieramento. Berlusconi vive una eclissi irreversibile, la Meloni ha troppi scheletri nell’armadio riguardo i rigurgiti neofascisti ed un’immagine estrema di destra-destra che non le giova. Il timone dovrebbe finire nelle mani di Salvini come deciso anche dagli elettori, solo che le giravolte continue fanno venire il mal di mare e soprattutto impediscono il radicamento di una primazia sia di immagine che strategica.

E dunque, a ritroso, si può provare a rispondere alla prima domanda. È di tutta evidenza che è in atto un logoramento dell’esecutivo di SuperMario che non può durare troppo a lungo. Draghi può governare con i partiti che fanno un passo indietro alla luce dell’impasse politica che hanno determinato (ed è la ragione dell’incarico affidato da Mattarella dopo la crisi del Conte bis); oppure se le forze politiche superano lo stato di necessità e marciano, nella loro autonomia, d’intesa con l’inquilino di palazzo Chigi. Ma se lo stato di necessità connesso all’emergenza fortunatamente si dirada e i partiti – ci ha provato per primo Letta e poi ha capito che non era il caso, ora ci prova e riprova Salvini – invece di coadiuvare l’azione di governo piantano paletti identitari che determinano frizioni e dissensi, allora quel che si produce è uno sfarinamento che provoca rallentamenti e non giova a nessuno.

Forse Draghi ne è consapevole. Per questo cerca di mettere in sicurezza prima del crocevia di gennaio quanto più può del Pnrr e vaticina per sé il Colle come rifugio. Si vedrà. Quel che è certo è che mettere i bastoni tra le ruote al Recovery è un esercizio di assoluto autolesionismo nutrito di una notevole dose di irresponsabilità.


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