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Mario Draghi al “COP26 World Leaders Summit” di Glasgow

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C’è chi – al di qua delle Alpi, diciamo così – ha storto la bocca quando il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha definito “un successo” le conclusioni del G20. Molte chiacchiere, poca sostanza, impegni generici è stato – trasferendo le luci della ribalta del confronto internazionale alle beghe di casa nostra – il mantra in particolare di chi vede in SuperMario un ostacolo alla sana dialettica politica e non il rammendatore di strappi che avevano portato in un vicolo cieco la governabilità del Paese. Forse conviene approfondire il discorso anche per valutare le conseguenze che può avere sui prossimi passaggi politici-istituzionali: manovra di bilancio e elezione del nuovo presidente della Repubblica.

La parola chiave usata dal capo del governo nei confronti dei partner del mondo è stata “multilateralismo”. Significa che in un pianeta non più diviso nelle aree di influenza determinate dai rapporti di forza vincitori-vinti della seconda guerra mondiale – di cui invece risente il Consiglio di sicurezza dell’Onu che infatti è accusato di peccare di rappresentatività – e dove la globalizzazione ha rovesciato priorità e interessi dei player mondiali, l’idea che alcune Nazioni possano da sole affrontare le catastrofiche conseguenze del cambiamento climatico e le necessarie riconversioni economico-industriali che toccano la vita di miliardi di persone, si configura come un esercizio vacuo, inconcludente e alla fine piuttosto pericoloso.

Multilateralismo significa che le decisioni che riguardano la sostenibilità del pianeta debbono essere prese con l’apporto di tutti o comunque con il massimo consenso possibile: altrimenti finiscono nel baule delle buone intenzioni di cui è lastricato l’inferno. Ma soprattutto vuol dire che ogni granello di sabbia portato al cantiere dove i Grandi e gli Stati più disagiati si confrontano è un contributo positivo, che vale la pena di essere usato. Solo in questo modo, nell’ottica di Draghi, si possono ottenere risultati efficaci e duraturi. Solo così si può costruire un mondo più giusto, più equo, più solidale. A prima vista sembrano concetti semplici, quasi banali. E invece rappresentano le basi per un confronto capace di coniugare le esigenze di tutti senza vanificare né i buoni propositi né le azioni da intraprendere.

Il successo del G20 a guida italiana sta qui. Nel fatto cioè che a Roma la consapevolezza che la sfida climatica ha bisogno di indicazioni più stringenti di quelle firmate a Parigi nel 2015; che il global worming va fermato a 1,5 gradi in più altrimenti le conseguenze saranno disastrose, è diventata patrimonio comune in maniera più massiccia del passato anche recente. Per non parlare della global minimum tax, dei miliardi di alberi d piantare, dei vaccini da destinare all’Africa e al Terzo mondo, dello stop agli investimenti pubblici nel carbone.

L’obiezione è che si tratta di impegni tanto vasti quanto generici. E che sulla temperatura della Terra il termometro temporale che deve far scattare l’allarme è ultra generico, dunque farlocco. In buona parte è vero. Ma è altrettanto vero che l’altra faccia multilateralismo è rappresentata dalla strategia dei piccoli passi, gli unici che sedimentano i cambiamenti veri. Se vogliamo usare un lessico più consono al confronto politico nostrano, potremmo dire che la bussola di Draghi è il riformismo che rifugge tanto il furore massimalista del “benaltrismo” quanto le scorciatoie degli accordi sottobanco tra Potenze.

È per questo che SuperMario è stato applaudito. È per questo che da Biden a Johnson alla Merkel tutti l’hanno elogiato per la preparazione del summit e per le misure contro la pandemia. Tradotto: i piccoli passi sono la medicina del realismo contro il virus della demagogia per un verso e dell’impotenza propagandistica per l’altro.

Multilateralismo=riformismo è uno slogan impegnativo. E non è difficile rintracciare nel modo in cui il premier amministra i dossier governativi, quelli del Pnrr nonché il tratto con cui gestisce il rapporto con la sua larga, eterogenea e sempre più rissosa maggioranza, le medesime modalità con le quali si è presentato all’appuntamento del G20.

Tutto questo che significa, quali ricadute ha nel cortile di casa Italia? Per prima cosa è impossibile non riconoscere che l’aura di prestigio, di affidabilità, di autorevolezza del capo del governo italiano è cresciuta. Il che fa sì che anche il ruolo dell’Italia cresca, in particolare nella considerazione dell’amministrazione Usa che vede in Roma un partner essenziale da giocare per contrastare le incursioni di Russia e Cina nel vecchio continente.

E poi un Draghi più solido e considerato agevola l’Italia nella gestione di questioni decisive come quelli concernenti la Libia e i Paesi mediterranei dell’Africa. Rimane al momento impregiudicato, invece, il destino di SuperMario nello scacchiere degli incarichi politici-istituzionali italiani. È indubbio che proprio per le ragioni esposte, nei suoi confronti monti una insofferenza che si ammanta di sottili disquisizioni giuridiche, di sotterranee e velenose trappole procedurali e anche di ostilità palesi. Niente di strano o di nuovo sotto il sole; è il portato del gioco della politica nella definizione che ama darne l’ex ministro socialista Rino Formica: sangue e guano (eufemismo). Tuttavia che Draghi rappresenti, più che mai dopo il G20, un’opportunità per l’Italia è davvero impervio negarlo. L’importante è che il ginepraio di interessi e veti dei partiti non lo azzoppi o lo metta fuori gioco. Il pericolo esiste; l’antidoto per ora manca.


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