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Il palazzo del Quirinale sede della Presidenza della Repubblica

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Il dibattito sulle elezioni quirinalizie non conosce soste. Chi come Letta sostiene che si rinvii la discussione a gennaio parla di una vaga buona intenzione: al massimo potrebbe ottenere che se ne discutesse un po’ meno in pubblico, cosa peraltro difficilissima di questi tempi.

La realtà è che è tutto un grande garbuglio, una specie infinita di cosiddetti “commi 22”, quelli dove la prima affermazione viene contraddetta radicalmente dalla seconda. In più nel quadro di un sistema che continua a sfarinarsi alle prese con la “diversità” del governo di Mario Draghi, che non è solo di emergenza, ma è sostenuto da un impegno per l’utilizzo fruttuoso della montagna di soldi che si pensa in arrivo dal Recovery europeo.

I partiti sono sempre più in affanno. Letta ha provato, con una intuizione che gli va riconosciuta, a proporre di rappattumare in qualche modo i cocci. Prima si discuta fra i capi partito e Draghi la legge di bilancio e poi si affronterà insieme il problema delle modalità per scegliere il candidato per il Quirinale. Significherebbe tornare in qualche modo alla “repubblica dei partiti” e infatti tutti i diversi leader si sono detti interessati. Vorrebbe però anche dire smontare la caratteristica del premier Draghi, che non sarebbe più un premier garante di un certo programma da lui elaborato, ma tornerebbe a vestire i panni dell’amministratore di condomino che trova la quadra per mettere d’accordo tutti distribuendo a ciascuno qualche riconoscimento.

Davvero Draghi sarebbe disposto a bruciare la sua figura speciale per provare a rimettere insieme un sistema dei partiti che non dà molte garanzie di tenuta? Certo, se l’operazione riuscisse, potrebbe darsi che i partiti per consolidare la loro ritrovata centralità si accordassero sulla candidatura per il Quirinale di una figura disponibile a limitarsi a gestire il traffico elettorale fra di loro.

A prescindere da quanto potrebbe essere interessante per il Paese una simile prospettiva, c’è da chiedersi se l’attuale situazione in cui versano le forze politiche consentirebbe l’operazione. Ne dubitiamo per la semplice ragione che tutti i partiti sono percorsi da tensioni, oltre tutto per le prospettive incerte sull’esito delle prossime elezioni nazionali quando ci si dovrà misurare con una riduzione di 345 seggi disponibili e con una volatilità notevole dei consensi.

Su tutto domina poi l’incertezza su come andare avanti a livello di governo. Si fa presto a dire che Draghi deve restare a Palazzo Chigi fino al 2023 e magari anche oltre, ma in realtà è dubbio possa essere così. I principali partiti sono decisi ad andare allo scontro nelle urne fra due blocchi contrapposti, centrodestra contro centrosinistra, ciascuno convinto di avere le sue probabilità di vittoria. Ciò significa che è già iniziato uno scontro all’ultimo sangue che andrà crescendo e che renderà inevitabilmente problematico che Draghi regga sino alla fine della legislatura (non si può governare nel bel mezzo di uno scontro su tutto), e renderà sicuro che non potrà restare al governo una volta che le elezioni abbiano stabilito la coalizione vincente.

La ragione è molto semplice. Non è pensabile che l’attuale premier stia in panchina durante lo scontro e poi accetti di sedersi con il vincitore chiunque esso sia: non è mica Conte. Se invece accettasse di mettersi alla testa di una delle due coalizioni in lizza, il suo governo esploderebbe ancor prima di affrontare le urne.

Quanto all’ipotesi che i partiti si accordino per mandare Draghi sul Colle, implica anch’essa un corollario difficile da affrontare. Sarebbe necessario trovare un nuovo premier che sia in grado di tenere in piedi questa sgangherata grande coalizione, essendo impossibile sia sciogliere la legislatura buttando nel caos immediato il PNRR (e oltre tutto comunque sarebbe necessario un governo tecnico di transizione, il che ripropone il problema di cui sopra), sia mettere d’accordo e tenere a freno dei partiti tutti impegnati nella corsa alla conquista della vittoria elettorale.

La soluzione che viene immaginata per disperazione è quella di congelare tutto, il che presuppone una riconferma di Mattarella. Questo non pone astratti problemi di compatibilità costituzionale (già al tempo della scadenza di Einaudi nel 1955 alcune forze politiche ne proposero la conferma e in una votazione raccolse anche una settantina di voti), ma ben concreti problemi di opportunità. A parte quello della trasformazione dell’eccezione di Napolitano in una specie di regola, c’è la follia di imporre ad un Presidente che si è guadagnato un grande prestigio nella gestione di un passaggio delicato di bruciare tutto nella missione impossibile di tenere insieme un sistema che non cerca altro che scontri a tutti i costi.

È per noi impossibile immaginare come si scioglierà questo garbuglio. Non crediamo proprio che sia possibile farlo iniziando ad affrontarlo a gennaio praticamente in concomitanza con le sedute dei grandi elettori. Se si rinvia ad allora è chiaro che ci si affida alla roulette russa degli umori di una grande assemblea in cui col voto segreto può succedere di tutto. Il risultato sarebbe non solo quello di avere un Presidente inevitabilmente poco adatto ad essere accettato da tutti, ma quello di mettere al Quirinale una figura che, almeno nella prima fase del suo mandato, avrebbe a che fare col debito contratto con quella quota di parlamentari che coi loro voti “aggiuntivi” hanno fatto pendere la bilancia verso di lui. Non una bella situazione in una fase che andrà quasi immediatamente incontro ad una prova elettorale che si preannuncia selvaggia, per non parlare dei problemi strutturali del nostro sistema.

Da “Mente Politica”


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