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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

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E SE LA questione non fosse la rielezione o meno del Capo dello Stato, bensì del terzo dei parlamentari destinato a perdersi e delle quote da ricalibrare nella legislatura a venire? Sarebbe da sdoganare, ora che l’autorevole costituzionalista Sabino Cassese ha riconosciuto essere “giusta nel merito”, la proposta di revisione costituzionale avanzata dai senatori del Pd Dario Parrini e Luigi Zanda per l’eliminazione del cosiddetto “semestre bianco”, e quindi per la non rielezione del presidente della Repubblica.

Del resto, lo “stupore” trapelato giorni fa dal Quirinale non investiva tanto il merito della iniziativa legislativa quanto la “interpretazione” in base alla quale dalla sua eventuale approvazione nel finale della legislatura potrebbe derivare la remissione temporale dell’ipotetico secondo mandato.

Gli stessi proponenti hanno tenuto a prendere le distanze dalla malizia dell’escamotage, assicurando di aver voluto piuttosto dare “ragione” al rigore dell’avversità al bis del costituzionalista Sergio Mattarella, sulla scia delle considerazioni dei predecessori Antonio Segni e Giovanni Leone. Anche se, come ha rilevato un meticoloso Claudio Petruccioli, mancherebbe il “no” esplicito del politico di scuola morotea. Fors’anche perché ancora mancano adempimenti politicamente corretti? È però evidente il rischio, già emerso con la rielezione del pur riluttante Giorgio Napolitano (convinto com’era che la “non rielezione” fosse l’”alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale”), la soluzione emergenziale possa rivelarsi illusoria.

Del resto, Mattarella deve aver anzitempo considerato l’incongruità dell’ipotesi avendo gestito un semestre bianco in proprio, scegliendo, un po’ prima che scattasse il congelamento del potere di sciogliere le Camere, di affidare a una figura autorevole, come quella di Mario Draghi, un governo al di fuori e al di là dei due opposti assemblaggi politici (il primo giallo-verde, quindi quello giallo-rosso) di una legislatura in cui persino la pandemia sta concorrendo alla sopravvivenza dello stato di eccezionalità.

Nove anni dopo aver ascoltato Napolitano denunciare nello stesso Parlamento che lo aveva rieletto il “rischio incombente di un avvitarsi nell’inconcludenza e nella impotenza” a causa “di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità”, come non temere che la persistente sterilità istituzionale vanifichi il “correttivo presidenziale” (come lo ha chiamato Il costituzionalista Stefano Ceccanti) elaborato sulle rovine delle due formule politiche scaturite dagli schieramenti imperfetti (il M5s correva in proprio, così come la sinistra separatasi del Pd) del 2018? Bene farebbero, allora, Parrini e Zanda, a non rinunciare al loro provvedimento. Non tanto, o non solo, per il doveroso omaggio a quel che il presidente Mattarella ha detto e fatto, ma soprattutto per quel che da questo Parlamento si attende che dica al paese e faccia in rapporto con l’Europa. Una riforma costituzionale, come quella dell’unicità del mandato presidenziale proposta da Parrini e Zanda, non può che essere di natura parlamentare. Ma, nella misura in cui si mostri capace di includere e favorire le più larghe convergenze faticosamente costruite attorno al governo Draghi, potrebbe ben dare alla continuità della legislatura il senso del compimento della transizione istituzionale rimasta irrisolta dalle contrapposizioni bicamerali e referendarie in cui è precipitata la dialettica politica, tra schieramenti a loro volta incompiuti. Qualcosa deve pur dire il triste epilogo dell’offerta del seggio parlamentare lasciato vuoto dal nuovo sindaco di Roma.

Si preferisce la strada maestra delle elezioni politiche? Ma questa appare piuttosto una strada tortuosa. A distanza di un anno dal referendum sul taglio dei parlamentari, da qualcuno addirittura proclamato “rivoluzionario”, nessuna delle due Camere ha ancora rivisto regolamenti vincolati alle ripetitività del bicameralismo perfetto (seppure esautorato da funzioni monopolizzate da una o l’altra Camera come, facendo di necessità virtù, sta accadendo in questa sessione di bilancio). Nè si sa quando e come si voterà. Si rinvia a dopo l’elezione del Presidente della Repubblica la decisione non tra il maggioritario e il proporzionale bensì sulla mera opportunità di mettere mano a una legge elettorale né carne né pesce, che non a caso ha consentito – precostituendo un precedente – i ribaltoni politici della legislatura, a partire dal primo all’interno dell’unico schieramento, quello di centrodestra (con la corsa solitaria della Lega al governo con il M5s), che pure dichiarava ai suoi elettori e torna a proclamare, a parole, pla organicità prossima ventura (avendo, allo stato, posizioni diversificate sul governo).

Campo largo, campo stretto, campo di battaglia? A ben vedere, campi disastrati. A sinistra, a destra e al centro. Politicamente e istituzionalmente, in un sistema di vasi comunicanti nuovamente ostruiti dalle paure, dalle incertezze, dalle tattiche senza respiro, dal mix di fatalismo e cinismo del tirare a campare. La legittimazione alla competizione futura è tutta in fieri, e non manca chi potrebbe approfittare dell’astenia istituzionale per ridefinire con una prova di forza le convenienze elettorali prossime venture. Ma quale maggioranza – se si vuole, quale Presidente del Consiglio, a partire dall’attuale – potrebbe reggere nel prosieguo della legislatura, accorciata o da completare, qualora la grande intesa che sostiene oggi il governo dovesse frantumarsi in schieramenti contrapposti grazie a voti raccattati tra i “senza speranza” in un Parlamento privato della prospettiva riformatrice? Non è questione di candidature, che quelli sono i nomi, ma di condizioni politiche e istituzionali tra una strategia chiara o un rimedio pur che sia.

Qual è il tempo utile? Potrebbero non avere tutti i torti quanti alla lotteria della elezione del Capo dello Stato antepongono gli impegni attuali del Parlamento (dai provvedimenti di contrasto alla pandemia all’approvazione della prima legge di bilancio del Recovery plan). Eppure la proposta avanzata a tempo debito dal segretario del Pd di un tavolo comune per depotenziare le tensioni sulla legge di bilancio, pur verbalmente accettata da tutti, è nei fatti rimasta lettera morta, mentre sulla manovra economica hanno cominciato a gravare tutt’altre manovre. Tanto da costringere il premier a surrogare, di fronte alle divisioni emerse in Consiglio dei ministri, e alla riapparizione del conflitto sociale, una qualità finora attribuita al solo Capo dello Stato, quale quella della estensione delle proprie prerogative. A una soluzione finanziaria, apparentemente tecnica. Escogitata, in effetti, al di fuori delle parti politiche.

Anche al di sopra della politica? Ecco, di questo non si può che discutere qui e ora. Senza ipocrisie e infingimenti. Alla politica tocca dare un senso a quel che resta della legislatura, vicino o distante appaia il guado che la separa dalla prossima. Almeno per chi voglia cercare di farla finalmente rientrare nell’alveo della democrazia dell’alternanza.


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