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Il Parlamento Italiano

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Due gli elementi da considerare nella forbice “Draghi vs partiti della maggioranza”; entrambi conseguenze di (addirittura) due peccati originali in questo scorcio finale di legislatura.

Il primo concerne il rapporto tra il presidente del Consiglio e “la politica” genericamente intesa. I tanti che invitano “Draghi a fare Draghi “ in realtà e senza tanto dissimulare chiedono che il premier commissari le forze politiche e le costringa a stare nei ranghi: un po’ come un preside con alunni indisciplinati.

Quelli che invece gli chiedono di avere un rapporto appunto più politico con la maggioranza e cioè, così si desume, di essere più disponibile ad accogliere le rispettive “bandierine” preelettorali, sorvolano sul fatto che Draghi sta dove sta non per le sue doti politiche o abilità di equilibrista del compromesso, quanto per il prestigio che lo circonda e le capacità mostrate in altri campi.

In entrambi i casi siamo fuori dalla cifra, politica o tecnica che si voglia, che anche a norma di Costituzione può identificare il legame tra il capo del governo e le forze politiche che lo sostengono in Parlamento. Diciamolo chiaro. Non può esistere un premier che sfidi continuamente i partiti quasi intenda delegittimarli o subornarli; né al contrario può esistere una maggioranza che vive il Timoniere di palazzo Chigi alla stregua di un alieno o addirittura di un abusivo, da sopportare e sgambettare. Quel rapporto deve essere invece improntato alla leale collaborazione, intriso di fiducia e con la consapevolezza d remare tutti nella stessa direzione.

Alle strette. Il Consiglio dei ministri non è un Cda dove i maggiorenti prendono decisioni e gli azionisti hanno l’unico compito di adeguarsi e ratificare. Il Parlamento ha diritto di far sentire la sua voce, altrimenti meglio chiuderlo. Al tempo stesso, tuttavia, se nel Cdm si raggiungono accordi magari frutto di compromessi è contraddittorio che poi si lavori in aula per cambiarli, addirittura sbandierando la necessità di farlo. Da che mondo è mondo, qualunque sia il capo del governo, qualunque sia la maggioranza messa in piedi e qualunque sia la fase politica in atto, se l’esecutivo va sotto nelle votazioni nelle Camere è il segnale di qualcosa che non va. E se il fenomeno si ripete o assume caratteri di serialità, l’allarme cresce di conseguenza.

Sta qui, perciò, il primo peccato originale. Chi critica Draghi in quanto “poco politico”, qualunque cosa voglia dire, fa finta di ignorare che al momento del conferimento dell’incarico di allestire una maggioranza che fino ad un attimo prima sembrava roba miracolistica, non gli è stato fatto alcun esame del sangue di sintonia col Palazzo, e neppure gli sono state richieste doti specifiche in quel settore. Chi lo accusa di non saper fare politica e di rapportarsi ai partiti della maggioranza con fare troppo brusco, sorvola sul fatto che un politico non è e né ci tiene ad esserlo: è un civil servant che cerca di tener fede alle regole di ingaggio ricevute dal Colle. Se la coalizione di larghe intese ha mutato forma ed equilibri interni, è giusto che se ne prenda atto. E magari si trovi una soluzione alternativa, se c’è. Altrimenti è solo un rimpallo di irresponsabilità.

Poiché però l’ipocrisia è una cattiva consigliera, va detto che la battaglia per il Colle ha lasciato sul terreno macerie sia nei rapporti personali che in quelli politici: negarlo è impossibile. Andrebbero sgombrati, prima di procedere oltre. Perciò delle due l’una. O il presidente del Consiglio ritiene di aver fallito un obiettivo per lui decisivo e molla la presa, oppure i partiti che lo appoggiano e hanno spiegato in lungo e in largo che la soluzione migliore per il Paese fosse la sua permanenza nell’incarico in quanto solo Draghi avrebbe potuto proseguire l’opera riformista obbligatoria per ottenere le risorse leale Ue, lo sostengano senza retropensieri e neppure sgambetti. In caso contrario, la loro già scarsissima credibilità subirebbe un colpo tremendo e chissà se definitivo.

Ma poi c’è un altro peccato super originale (sempre che possa esistere in termini di dottrina), precedente al primo. Mario Draghi è stato convocato al Quirinale e gli è stato chiesto di affrontare le emergenze in corso, vaccinali per il Covid e economiche per il Pnrr. Il mandato è quello e Draghi intende assolverlo: se ci sono deragliamenti o se prevalgono interessi di parte rispetto al traguardo da tagliare, il presidente del Consiglio non può che segnalarlo. E dire, come ha sottolineato, che in quelle condizioni “non si va avanti”.

Chi critica Draghi fa finta di non ricordare che l’ex presidente della Bce è stato chiamato da Sergio Mattarella a formare il governo sulla base del collasso dei partiti che avevano fatto fallire ed esaurito ogni formula politica possibile. Il capo dello Stato è partito di qui, al punto da scriverlo nella dichiarazione ufficiale con la quale ha disposto l’incarico a SuperMario. Il ruolo dei partiti e la loro autonomia, in un sistema democratico, rappresentano beni da salvaguardare ad ogni costo. Tuttavia quando i partiti non riescono ad essere all’altezza dei loro compiti, e figure fuori dal loro perimetro vengono indicate per rimettere in sesto la situazione, non c’è da far altro che adeguarsi e, possibilmente, avviare un’operazione di rigenerazione. Poi tanto ci sono le elezioni, altro passaggio democratico fondamentale, che rimettono le cose a posto. Nell’attesa, l’agenda del governo è una priorità.


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