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Mario Draghi

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C’E’ stato un momento nei giorni scorsi che mi è sembrato di rivedere il film “Prova d’orchestra” del grande Federico Fellini. Quel film rappresentò l’intuizione di un artista che seppe cogliere i guasti di uno strapotere sindacale che allora erano subiti e accettati senza reagire. Fellini ne “La città delle donne” seppe cogliere la peculiarità dei primi segnali di un femminismo  esasperato e inconcludente, tutto sommato incapace di emanciparsi. Ma tornando a “Prova d’orchestra” chi l’ha visto ricorderà che, a un certo punto, fa irruzione un’enorme palla di piombo che demolisce un’intera parete della sala; gli orchestrali  che fino a quel momento ne avevano combinate di ogni (come si dice adesso)  si sistemano ai loro posti e richiamano il direttore che fini ad allora avevano vilipeso e spernacchiato. 

I leader dei  partiti italiani – quando è sembrato che il prezzo del Kilowatt/ora  del gas schizzasse alle stelle erano disposti a concedere a Mario Draghi quei ‘’pieni poteri’’ che il premier non aveva mai chiesto quando il suo governo non era stato costretto alle dimissioni. Poi è bastato che la situazione apparisse meno grave ( ma durerà?) perché i nostri musicanti a orecchio tornassero ad affidarsi alle loro cacofonie. In sostanza nel condurre la campagna elettorale i leader sono tornati ai loro vecchi argomenti, alle “buone cose di pessimo gusto” che nei loro limiti culturali considerano argomenti vincenti. Giorgia Meloni  ha avvertito sul collo il fiatone di Matteo Salvinia proposito dei migranti e ha rilanciato l’idea del blocco navale, arricchendolo di una complicità dell’Europa. E’ vero che la leader di FdI – in grande spolvero di consensi – potrebbe ricordare ai suoi critici che il blocco fu predisposta dal governo Prodi quando era in corso un esodo di massa dall’Albania; ma Meloni non chiarisce quali sarebbero le regole di ingaggio degli equipaggi. Del resto i blocchi navali sono fatti per essere elusi anche quando il naviglio incaricato ha la licenza di usare i cannoni.

Matteo Salvini, il Conducator del Carroccio, è ritornato ai suoi vecchi amori, anzi ai soliti odi, con sfoggio di maleducazione, volgarità e – quel che è più grave per un personaggio che potrebbe ricoprire un ruolo importante nel prossimo governo – crassa ignoranza. Nei suoi comizi in giro per la Penisola è tornato a prendersela con la riforma delle pensioni  a nome di Elsa Fornero, rivolgendosi all’ex ministro con toni sguaiati. Il che potrebbe anche passare come polemica eccessiva, se le critiche fossero fondate; il fatto è che il Capitano mostra di non sapere e di parlare a vanvera.

A Bari nel corso di una comparsata elettorale (ma ormai la recita a soggetto viene eseguita in tutti i comizi), Salvini ha criticato quanto  Elsa Fornero aveva osato dire in una trasmissione televisiva: “Questi anziani in Italia potrebbero lavorare un pò di più”. E’ la stessa opinione espressa in una intervista da Gian Carlo Blangiardo, autorevole demografo e presidente dell’Istat, nominato dal governo giallo-verde. “Con una demografia come questa non è sostenibile che le imprese mandino il proprio personale via a 55-60 anni”. Ma per l’ex Capitano, che si documenta  leggendo Topolino, si è trattato di “Una frase che umilia milioni di lavoratori 60enni che attendono da tempo di poter andare in pensione senza attendere i 67 anni fissati appunto dalla riforma Fornero”.  Perciò, innervositosi,  si è lanciato in un’escalation da “codice rosso”: “Vergognati, chiudi la bocca se devi dire queste sciocchezze, porta rispetto a chi lavora da 40 anni in una fabbrica, in un ristorante, in una casa di riposo”. 

In altre occasioni ha ricordato altre fattispecie di lavoro disagiato evidentemente ignorando che sono già tutelate dalla normativa vigente con possibilità di anticipare la pensione sia per quanto riguarda l’età anagrafica sia i requisiti contributivi. Ma la sua insistenza sui 41 anni a prescindere dall’età anagrafica è la conseguenza di un colpo di sole sulla spiaggia del Papeete: in primo luogo perché fino a tutto il 2026 i requisiti ordinari del pensionamento anticipato sono fissati, a prescindere dall’età, a 42 anni e 19 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne; in secondo luogo perché la via d’uscita per i cosiddetti quarantunisti, a fronte di certe condizioni di disagio, è già a regime.

Ma soprattutto Salvini non spiega che fine farebbe nella sua strategia la pensione di vecchiaia (acquisibile a 67 anni con almeno 20 anni di contributi). Il fatto che Salvini indichi il requisito dei 41 anni di anzianità come se fosse una regola applicabile in generale svela pertanto la sua ignoranza come se ritenesse che tutti i pensionati avessero  le caratteristiche dell’operaio del Nord nato ai tempi del baby boom e vissuto in un contesto economico e del mercato del lavoro che gli ha  consentito di entrare presto nel mercato del lavoro e rimanerci stabilmente per un lungo periodo di anni. Se, per andare in quiescenza, occorressero comunque 41 anni di versamenti le donne – per la loro posizione di debolezza sul mercato del lavoro-  non riuscirebbero mai raggiungere quel limite se non ad età venerande (sempre ammesso e non concesso che siano in grado di rimanere in attività, mentre le generazioni maschili del baby boom che hanno cominciato a lavorate presto e con continuità e stabilità, ci arrivano facilmente intorno ai 60 anni.

L’altra cosa da ricordare al Capitano è che nel sistema sono previste parecchie via per l’uscita anticipata attraverso le quali si realizza un fenomeno unico al mondo: lo stock delle pensioni anticipate supera di oltre due milioni quella delle pensioni di vecchiaia; per quanto riguarda invece i flussi fatto 100 il numero dei nuovi trattamenti  di vecchiaia di vecchiaia quelli di anzianità sono pari ad almeno il doppio. Ma non insistiamo troppo sul grande immondezzaio del dibattito sulle pensioni. Ci limitiamo a concordare con il programma del Terzo Polo che non affronta se non marginalmente questo problema (come è giusto che sia) e segnaliamo una certa affidabilità per alcune proposte del Pd e – udite! udite! – del M5S. Quanto ai minimi, abbiamo già dato.

I contribuenti italiani erogano all’Inps 21 miliardi l’anno per finanziare l’attuale integrazione al minimo, un criterio che deve essere esteso anche a coloro che sono in regime totalmente contributivo risolvendo così la questione della c.d. pensione di garanzia. La cosa che balza agli occhi ma mano che procede la campagna elettorale è ancora un’altra. Mettiamo in fila le date: si vota il 25 settembre; le nuove Camere si riuniscono il 15 ottobre per compiere i primi adempimenti tra cui l’elezione dei rispettivi presidenti. Poi iniziano le consultazioni per formare un nuovo governo sostenuto da una maggioranza in ambedue le Camere. Anche ammesso che il responso  del corpo elettorale sia chiaro (non si dimentichi che non vige in Italia l’elezione diretta del premier ma spetta al capo dello Stato assegnare l’incarico dopo le consultazioni e che nel 2018 ci vollero mesi) e che si possa arrivare il più presto possibile ad avviare la Legislatura, il governo, ottenuta le fiducia, dovrà precipitarsi a varare la legge di bilancio.

Non sarebbe il caso allora che le coalizioni spiegassero agli italiani come intenderebbero impostare la manovra di bilancio, tenuto conto delle difficoltà che vi saranno in quel momento e considerando altresì che la Ue e i mercati aspettano il nuovo governo al varco? E che non ci sarà più Mario Draghi a fare da garante?


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