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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni

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QUANDO alle 16.30 comincia il Consiglio dei ministri il testo sull’autonomia differenziata è blindato. Le modifiche sono state apportate nei giorni scorsi. «Il testo è chiuso», ha assicurato prima di entrare a Palazzo Chigi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Il compromesso prevede una maggiore centralità del Parlamento. «Puntiamo a costruire un’Italia più unita, più forte e più coesa – afferma la premier Giorgia Meloni – Il governo avvia un percorso per superare i divari che oggi esistono tra i territori e garantire a tutti i cittadini, e in ogni parte d’Italia, gli stessi diritti e lo stesso livello di servizi. La fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni, in questi anni mai determinati, è una garanzia di coesione e unità. Un provvedimento che declina il principio di sussidiarietà e dà alle Regioni che lo chiederanno una duplice opportunità: gestire direttamente materie e risorse e dare ai cittadini servizi più efficienti e meno costosi».

Il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, garantisce il piano coinvolgimento delle Camere: «Il testo del ddl prevede che l’intesa con la Regione debba ricevere il parere della Conferenze delle Regioni, dopo di che dovrà essere approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. Mi spiace dei toni di risentimento, e pregherei di leggere il testo prima di scatenare la contrarietà».

Intanto gli azzurri di Silvio Berlusconi e anche alcuni meloniani non lo dicono ma preparano le barricate per quando il ddl arriverà alla Camera e al Senato. Viene eliminato il riferimento alla spesa storica, ma le incognite, va da sé, non mancano: dalla definizione dei Livelli essenziali di prestazione, che saranno determinati da più decreti del presidente del Consiglio, al fondo di perequazione. Non a caso il costituzionalista Alfonso Celotto ritiene che «il problema aperto di questo disegno di legge è stabilire con quale fonte vadano definiti i Lep. Attualmente si prevederebbe che spetti al governo con un Dpcm. Tuttavia è più conforme al disegno costituzionale pensare che sia la legge a individuare e stabilire i Lep, perché i diritti delle persone possono e devono essere disciplinati con atto del Parlamento. È opportuno modificare questo punto». Celotto si mostra preoccupato di fronte al ddl Calderoli, perché «su sanità e istruzione senza i livelli di garanzia si rischia di dividere il Paese». Un applauso accompagna l’approvazione del ddl.

Tutto risolto? La strada è ancora lunga. E gli step delle prossime settimane comporteranno possibili rallentamenti. Il vicepremier Matteo Salvini gongola. Calderoli è raggiante. È un risultato per la Lega da potere sbandierare nella campagna elettorale per le elezioni regionali in Lombardia. Dall’altro, Meloni ottiene maggior poteri per Roma Capitale. Una compensazione che non acuisce le distanze all’interno della coalizione. Una coalizione travolta dal caso Cospito, dai malumori di Forza Italia che sposa l’autonomia differenziata ma auspica modifiche, dalla richiesta del Consiglio d’Europa che chiede al governo di ritirare il decreto sulle Ong. Tanti, troppi i dossier che fanno traballare la maggioranza. Un clima di tensione che si tocca in mano al mattino, nel Transatlantico di Montecitorio. Dice un rappresentante del governo: «Qui rischiamo di non arrivare alla Santa Pasqua».

Tutto è deflagrato a causa delle dichiarazioni di Giovanni Donzelli, fedelissimo di Giorgia Meloni, che ha rinfacciato all’opposizione una certa ambiguità sul 41 bis, utilizzando come argomento la visita dei parlamentare del Pd ad Alfredo Cospito, l’anarchico che digiuna da 105 giorni contro il carcere duro. Sempre Donzelli ha poi spiattellato in aula le informazioni ricevute dal sottosegretario Andrea Del Mastro, su alcune intercettazioni ambientali che riguardano la saldatura tra Cospito e i suoi compagni di detenzione legati alla alla mafia e alla camorra e interessati all’abolizione o alla modifica del 41 bis. Informazioni sensibili e riservate che non erano a disposizione di ogni singolo parlamentare. Non a caso il ministro Nordio si smarca, prende le distanze: «È bene premettere che, in linea di principio, tutti gli atti riferibili ai detenuti in regime 41 bis sono, per loro natura, sensibili, ragion per cui, ai fini della loro estensione, occorre una preventiva verifica e valutazione del loro contenuto».

Sempre Nordio apre un’inchiesta interna affidata al capo di gabinetto. In questo contesto l’informativa di Nordio non serva a calmare il clima. Anzi. Ragion per cui nella serata di mercoledì Meloni accende la tv su Rete4. All’ora di cena c’è il dibattito condotto da Barbara Palombelli. Scuote la testa, la premier: «Non è il governo che sta alzando i toni sul caso Cospito». A questo punto l’irritazione è tale per cui l’inquilina di Palazzo Chigi chiama “Stasera Italia” e fa un’improvvisata nello stile di Silvio Berlusconi. Come il Cavaliere ai tempi di Ballarò e Annozero, la voce di Meloni piomba nello studio televisivo: «Sono allibita. Bisogna fare un po’ di attenzione, la questione è delicata. Il governo sta eccitando la piazza? Il governo non ha fatto altro che il suo lavoro, facendo molta attenzione a non alzare i toni su questo. Il tema non lo abbiamo alimentato noi. Noi abbiamo semplicemente espresso la solidarietà poi è montato questo caso. Io consiglio francamente prudenza, perché ho letto titoli di giornali che dicono di voler punire i mandanti quindi consiglio responsabilità. Vorrei che fosse chiaro che la sfida non è al governo ma allo Stato, non è un problema politico».

La telefonata agli studi di Rete 4 lascia il segno. «Fotografa una premier nervosa e in difficoltà» sussurrano in Transatlantico. A testimoniarlo ci sono gli imbarazzi del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, la mancata solidarietà da parte della Lega al duo Donzelli-Del Mastro. I silenzi di Forza Italia che non si spende per spegnare il fuoco. «Una vicenda – sostiene un azzurro – gestita malissimo». Che potrebbe avere due effetti: mettere in bilico la riforma Cartabia e segnare il cammino del governo. «Rischiamo di non arrivare alla Santa Pasqua».


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