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Come tutti i virus, anche il Corona colpisce i fragili e non è un caso che fra tutti i deboli d’Europa abbia colpito proprio noi. E può sembrare paradossale che il male abbia messo radici proprio in quella Lombardia che sembrava inaffondabile.

Il virus, in verità, sta mettendo a nudo fragilità che si sono costruite nel tempo, e se il Paese e la stessa Lombardia hanno mostrato al mondo il nostro lato debole è perché negli anni abbiamo compiuto delle scelte che oggi dimostrano tutte le loro criticità.

IL RUOLO DELLO STATO

Innanzitutto il famoso modello lombardo-veneto di sanità privata ha mostrato tutti i suoi limiti. Il piccolo virus cinese, naturalizzato in terra lombarda, dimostra che è non sufficiente puntare su strutture private capaci di garantire punte di eccellenza, ma torna necessario disporre di una sanità pubblica che raggiunga anche le cittadine periferiche per garantire il più pubblico dei servizi, cioè l’igiene e la sicurezza sanitaria.

Così l’emergenza ci ripropone il tema, quasi rimosso in questi anni, del ruolo dello Stato in una società aperta, ruolo entrato nel dibattito recente solo “sub specie” di taglio della spesa pubblica, santificata dalle ondate di spending review che da Monti a Cottarelli dovevano falciare spese inutili, senza mai però domandarsi realmente quale fosse il livello di garanzia che lo Stato doveva ai propri cittadini.

Oggi il governo – o meglio il presidente del Consiglio, essendosi liquefatti sia il governo che il Parlamento- propongono interventi drastici, quali la chiusura delle scuole per quindici giorni e la messa al bando dei baci e delle strette di mano, senza tuttavia delineare quale possa essere una via di uscita da questa emergenza, che con la roboante voce dell’epidemia globale ci dice di noi quanto sapevamo già, così come mette in chiaro le fragilità di un’Europa che, presa tra i virus asiatici e i migranti mediorientali, sembra proprio aver perso qualsiasi capacità di azione.

COORDINAMENTO UE

E invece la prima azione che l’Italia deve intraprendere è uscire dall’inutile autocommiserazione e dalla fatua richiesta di tolleranza da parte dei partner europei in cui siamo caduti ancora una volta.

Di fronte a una crisi sanitaria di dimensione globale bisogna richiedere con forza che la Commissione europea prenda il centro del campo e svolga con tutto il proprio peso quel coordinamento delle azioni nazionali, che dimostri che questa è una emergenza che tutta Europa fa propria, evitando il grave errore che venne compiuto con il Trattato di Dublino in cui i migranti sono diventati un problema solo del Paese in cui sono avvenuti gli sbarchi.

L’emergenza sanitaria è un evento che coinvolge tutta l’Europa e tutta l’Europa deve fin da ora decidere e attuare azioni congiunte per evitare che questa crisi sanitaria finisca per trasformarsi in una crisi economica di portata ben più grave, con effetti devastanti sugli equilibri interni della stessa Unione.

Mentre la Cina e gli Stati Uniti affrontano questa crisi potendo contare su un mercato interno di vaste proporzioni e una economia ancora vivace, l’Europa paga dieci anni di surplus tedesco, in cui alla crescita della Germania corrispondeva un obbligo contenitivo, e a tratti recessivo, per le altre economie, con dei livelli di spesa pubblica del tutto insufficienti per riuscire a mantenere una domanda interna adeguata a garantire tassi di crescita sufficienti a ridurre la disoccupazione e le diseguaglianze.

Proporre fin da ora – in piena emergenza per l’Italia, ma in fase di ampliamento anche negli altri Paesi europei – un grande piano di investimenti infrastrutturali, di ricerca, di sostegno alle alte tecnologie – vuol dire comunicare a tutto il mondo che abbiamo un percorso di uscita da questa emergenza. Poiché abbiamo verificato la esiguità delle risorse dirette della Ue, si sta parlando in questi giorni di interventi eccezionali del Fondo Salva-stati, di prestiti della Banca Mondiale, di interventi della Bei.

GARANZIE PER TUTTI

Ora occorre però mostrare che queste risorse rispondono a un disegno non emergenziale, che intervenga a curare le fragilità proprie dell’economia europea, mettendoci al riparo dalle prossime sventure già annunciate, siano nuove epidemie, sempre in agguato o disastri naturali, sempre più frequenti.

E in questo disegno bisogna ripensare laicamente a quali debbano essere i presidi pubblici necessari per garantire la sicurezza della popolazione, sia una sicurezza sanitaria, che ambientale; bisogna quindi tornare a decidere quali siano i beni pubblici – salute, ambiente, sicurezza – che uno Stato deve garantire a tutti i cittadini, a prescindere dal loro reddito, dal loro status o dalla regione in cui vivono.

Infine si ricordi che l’Italia è cresciuta in questi anni vendendo nel mondo macchine di produzione, cioè tecnologie. Richiedere all’Unione europea di sostenere queste competenze vuol dire dare fiducia alle imprese italiane e nel contempo lasciare lo spazio per azioni nazionali e locali per sostenere i redditi, e quindi il commercio, il turismo, mentre l’economia ritrova la via smarrita dello sviluppo. Mai come nel momento dell’emergenza c’è bisogno di ritrovare i fondamenti della vita collettiva.


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