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Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia

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Guarda al futuro Marco Trivelli, che da quest’oggi è formalmente nuovo direttore generale al Welfare in Lombardia, in sostituzione di Luigi Cajazzo che è stato designato invece come vicesegretario della Regione con delega all’integrazione sociosanitaria. Guarda al futuro sebbene sia un uomo del vecchio sistema: come abbiamo già ricordato Trivelli, di Comunione Liberazione da quando ha 13 anni (come lui stesso ha rivendicato al Corriere della Sera) è cresciuto alla scuola del direttore generale Carlo Lucchina, nella lunga epoca di Roberto Formigoni. Ma lui garantisce, sempre al Corriere, di aver incontrato il Celeste solo una volta e di non aver «mai frequentato i Big Boss della politica né mai ricevuto pressioni di nessun tipo»; Trivelli preferisce definirsi come «un uomo del popolo e un contabile della sanità pubblica che deve e può cambiare».

Ma cosa significa in concreto, in quale direzione cambiare? Le parole d’ordine, nelle sue intenzioni, sono: territori e collaborazione. Quindi rilancio delle attività ambulatoriali e della figura del medico di base poiché per tre mesi le prestazioni e le cure di routine e quelle della cronicità sono state sospese e ora si deve riprogrammare tutto con modalità nuove che sperimentano possibili mezzi e piani per evitare il contagio da Covid-19. In questa riorganizzazione dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale il rapporto tra medici di base e specialisti, che è stato uno dei grandi nodi, mai sciolti, della riforma della sanità lanciata ormai anni fa e che puntava sull’integrazione ospedale-territorio. Un piano quinquennale che ad agosto arriva alla prima verifica e difficilmente ne uscirà senza pesanti critiche. Perché l’emergenza sanitaria caduta tra capo e collo da fine febbraio ha dimostrato proprio questo: l’organizzazione della medicina territoriale non ha funzionato, alla faccia della riforma Maroni che l’aveva messa tra i propri obiettivi principali. I medici di base si sono trovati soli nella gestione dei pazienti, denunciando spesso di esser stati abbandonati dal sistema, lasciati in balia di scelte drammatiche di fronte a mezzi del tutto inadeguati per salvare vite.

Trivelli se ne rende conto e quindi dichiara pubblicamente di voler impegnarsi a fondo per la gestione dei guariti da Covid-19 ma che necessitano ancora di assistenza; così come per la ricerca e lo sviluppo della prevenzione di una malattia che, come lui stesso ha ammesso, ancora non conosciamo: «dobbiamo capire qual è l’evoluzione, se ci possono essere conseguenze permanenti. Dobbiamo monitorarli, uno a uno». Come? È proprio qui sta una delle grosse incognite, perché il passato molto prossimo (anzi, ancora quasi presente) del sistema lombardo non offre certo modelli cui ispirarsi. La presunta eccellenza della sanità lombarda ormai è stata messa a nudo, per questo è difficile avere fede.

Non ne hanno affatto i componenti né i simpatizzanti del comitato “Noi denunceremo”, realtà che mercoledì scorso ha organizzato un “denuncia day” a Bergamo, in occasione della consegna delle prime 50 denunce alla Procura che sta indagando sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano il 23 febbraio (si accertarono due contagi ma per la struttura venne deciso un arresto per sole due ore) nonché sulla non istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro; un’indagine che, secondo alcune indiscrezioni trapelate, ci sarebbero due iscritti nel registro degli indagati. Il Comitato è sul piede di guerra e non si ferma, anzi: entro fine mese ha annunciato il deposito di altri 100 fascicoli in Procura, e l’avvocata Consuelo Locati, che segue la vicenda, ha dichiarato alla pagina locale de “Il Giorno”: «a livello politico, stiamo assistendo ad un rimpallo delle responsabilità. La zona rossa ad Alzano e Nembro poteva essere istituita anche dalla Regione Lombardia e dai sindaci, lo stabilisce la legge 833 del 1978, articolo 31, comma 3: la legge in questione conferisce alle Regioni questo potere decisionale e prima ancora ai sindaci. Non si tratta di un’opinione, ma di una legge dello Stato. Siamo convinti che se si fosse intervenuti in tempo, si sarebbe evitata questa strage».

Le accuse e le ipotesi di reato del Comitato sono pesantissime e le richieste nette: «chi ha sbagliato deve pagare». Pagare dal punto di vista giudiziario ma anche da quello politico: questa necessità arriva ormai da ampi settori dell’opinione pubblica e della società civile lombarda, sui social ma, ora che è possibile, anche nelle piazze. Sabato a Milano è prevista una mobilitazione massiccia e le iniziative che si stanno organizzando sono ben due: da un lato il presidio in piazza Duomo promosso dalla rete Milano 2030, inserito nella campagna dei fiocchetti neri sulle mascherine a simbolo della richiesta di commissariamento della Lombardia e le conseguenti dimissioni del suo governo. Dall’altro, soggetti più legati al movimento milanese, da sindacati di base a centri sociali, hanno indetto una mobilitazione sotto il Pirellone, per chiedere sì verità ma anche, se non soprattutto, giustizia sociale nel modello sanitario, sia in quanto sistema sia in quanto mondo del lavoro.


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