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Viaggiatori all'aeroporto di Malpensa

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Non è cambiato nulla: in primavera in Lombardia c’è stato il caos nel gestire l’emergenza, oggi a Malpensa c’è caos nel gestire i tamponi per chi rientra da Spagna, Croazia, Malta e Grecia; un dato di cronaca commentato con amarezza da Stefano Fusco, portavoce del Comitato bergamasco dei parenti delle vittime “Noi denunceremo”: «A 5 mesi dalla fine dell’emergenza la Regione Lombardia non è ancora in grado di gestire qualche migliaio di tamponi in zone a potenziale di alto contagio come gli aeroporti».

LE DIFFICOLTÀ

La dichiarazione è arrivata nel giorno in cui nel principale scalo milanese ha preso il via l’attività annunciata il giorno precedente dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera: «Saranno allestite otto postazioni che rimarranno attive tutti i giorni dalle 9 alle 18.30. Potranno effettuare il test molecolare sia i cittadini lombardi che rientrano dai 4 Paesi indicati dall’ordinanza ministeriale del 12 agosto scorso, sia i passeggeri in arrivo dalle stesse nazioni che hanno previsto di soggiornare in Italia per almeno 4 giorni».

Oltre una settimana il tempo trascorso dall’Ordinanza nazionale; ancora una volta la Regione ha dimostrato tutta la sua difficoltà gestionale, già sotto accusa (e inchieste) da mesi: da più parti, mediche, giornalistiche, universitarie ma anche, appunto, giudiziarie, sono piovute critiche pesantissime e che dovrebbero affossare per sempre la possibilità di una replica. Ma i segnali sono preoccupanti.

L’INCHIESTA

Per questo, oggi più che mai, è attuale l’invito a ripensare la sanità, in primis in Lombardia, dove sta scadendo (anche se ha avuto una proroga di qualche mese) il quinquennio di sperimentazione Maroni, ovvero l’ultima tappa, in termini cronologici, del graduale percorso di smantellamento della sanità pubblica che è stato una delle cause principali del disastro della gestione dell’emergenza in questa regione. Un percorso ricostruito in “Senza Respiro”, un’inchiesta indipendente curata dal medico Vittorio Agnoletto insieme ad altri soggetti, tra cui Medicina Democratica. Sarà uno strumento utile per avere sempre sotto mano, e raccolte in un unico luogo, le varie osservazioni avanzate nei mesi drammatici e che è bene non dimenticare, se davvero si vuole cambiare strada.

«C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale. Tutto quello che doveva essere applicato sul territorio non è venuto fuori come doveva. Non c’era potenziale per fare tamponi. Qualcuno è stato incapace di moltiplicare potenzialità diagnostiche. Ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto», aveva ammesso in una trasmissione Rai molto seguita Massimo Galli, direttore dell’Istituto di scienze biomediche all’ospedale Sacco di Milano, uno degli ospedali pubblici d’eccellenza.

IL BUCO NERO

La sua è solo una delle molte analisi proposte per cercare di capire come mai, nel momento più drammatico, quella che era considerata un’eccellenza sanitaria mondiale (il sistema lombardo) si è rivelata un gigante dai piedi d’argilla. A essa si sommano i puntuali studi della professoressa Maria Elisa Sartor del Dipartimento di scienze cliniche e di comunità dell’università degli Studi di Milano e, appunto, “Senza Respiro” e le relative osservazioni di Agnoletto e Medicina Democratica (ma non solo).

«Ci siamo ritrovati senza posti letto in terapia intensiva, ma anche senza dispositivi di protezione negli ambulatori. Con il 10% del personale sanitario infetto, senza alcun supporto ai medici di famiglia. Su 100 ospedali pubblici, il 60-70% ha un pronto soccorso e un reparto per emergenze. Nel privato non si arriva al 30%. In questi anni si è lasciato totalmente alla sanità pubblica l’onere dell’emergenza e al privato il profitto determinato dalla cura dei malati cronici». Un processo favorito dalla Regione Lombardia attuando due strategie: lasciare l’emergenza al pubblico e, di concerto, potenziare il privato nelle prestazioni specialistiche.

POSTI LETTO FALCIDIATI

«Le cause – continua Agnoletto – che ci hanno impedito di reggere all’onda d’urto del Coronavirus, a parte l’impreparazione degli amministratori, sono l’abbandono dell’assistenza territoriale e la privatizzazione della sanità, in particolare nella case history della Lombardia. Qui e altrove, a partire dagli anni Novanta, la sanità pubblica è stata tagliata, indebolita e smantellata. Secondo l’Oms, l’Italia, dal 1997 al 2013, ha più che dimezzato i posti letto per i casi acuti e per la terapia intensiva, finendo agli ultimi posti nella classifica europea. Un esempio, tra i tanti possibili, che mostra quanto deleterie siano state le politiche di rigore, decise in Europa e applicate nei singoli Stati attraverso consistenti tagli alla spesa pubblica sanitaria».

Per tutti questi motivi il Coordinamento nazionale per il diritto alla salute chiede di sottoscrivere il Manifesto “La salute non è una merce, la sanità non è un’azienda” della campagna Dico 32! (www.medicinademocratica.org) in cui si chiede l’eliminazione dell’impostazione aziendalistica fondata sulle «compatibilità economiche e slegata dai reali risultati di salute, della normativa che permette la libera professione intramoenia, altro fattore di diseguaglianza, nonché ogni finanziamento alla sanità privata».


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