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Una seduta della Conferenza Stato-Regioni

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L’ATTESA per i risultati delle presidenziali americane mette la sordina all’attenzione per le polemiche sulla vicenda dell’ultimo DPCM e questioni connesse, polemiche che però continuano senza che non diciamo si arrivi, ma neppure per il momento si facciano evidenti passi avanti sulla strada del dialogo/confronto fra maggioranza e opposizione sollecitato da Mattarella. Viene da pensare che si sia in tutti i campi prigionieri di una sorta del mitico comma 22: fare una certa cosa è la cosa giusta, ma se la facciamo diventa automaticamente sbagliata. Vediamolo dal punto di vista dell’opposizione. In una situazione di emergenza nazionale diventare parte e promotori della coesione generale le darebbe lustro.

Ma se si comporta così non solo ammette di aver sbagliato nel fare opposizione sino ad oggi, ma anziché collaborare all’uscita dall’emergenza diventa complice degli errori (inevitabili) nella sua gestione. Certamente per leader che hanno impostato per anni la loro strategia nella direzione che per comodità definiamo sfascista, cambiare registro proprio quando a loro sembra di essere ad un passo dallo sfascio del governo risulta non solo difficile, ma quasi contro natura. Del resto le aperture verso di loro da parte del governo arrivano nel momento in cui il premier e i suoi ministri sono a corto di credito presso l’opinione pubblica e questo certo non agevola la ricerca di terreni di accordo.

Basta riflettere su un dato banale. Si è detto che si doveva ricorrere allo strumento anomalo dei Dpcm perché consentivano la massima velocità di intervento e si è visto nell’ultimo caso che ci sono voluti giorni per arrivare a promulgare un testo, che fra il resto rimanda poi ad altri provvedimenti da prendere. La gente normale si chiede cosa ci sia di veloce in tutto questo. Il tema dell’imposizione al paese di misure che indubbiamente incidono sugli equilibri economici e sociali sembra un altro comma 22. Si vorrebbe fare una scelta, che di per sé appare assolutamente razionale, di graduare questi interventi in rapporto alla diversa situazione dei singoli territori, ma proprio qui sorge una difficoltà che forse non si percepisce neppure nitidamente. Limitazioni alle libertà dei cittadini (di movimento, di impresa, ecc.) possono essere imposte creando differenze fra loro a seconda della residenza?

Dal punto di vista astratto del leguleio (figura dominante in questi tempi in cui ciascuno difende tutto quello che gli aggrada come “diritto”) non è possibile: la legge deve essere eguale per tutti. Così le regioni argomentano che il governo deve fare provvedimenti validi su tutto il territorio nazionale, altrimenti crea differenze fra i cittadini, ma il governo non lo vuol fare per salvare nei limiti del possibile l’equilibrio sociale laddove è consentito e dunque dice alle regioni, fate voi, che essendo enti “territorialmente circoscritti” non rompete l’assioma di trattare tutti i vostri soggetti allo stesso modo ( e poi si dice che non piace il para-federalismo …). Naturalmente è un bel pasticcio, gestito non tanto sul filo di principi giuridici quanto di interessi molto contingenti: il governo non vuol perdere in popolarità e i governatori delle regioni altrettanto, soprattutto per il fatto che differenti condizioni di vita nell’epoca della pandemia fra le diverse regioni porterebbero a giudizi negativi su chi sta peggio. Questo è logicamente assurdo, perché si dovrebbe convenire che molto dipende da condizioni date che non sono né merito né demerito dei governi regionali: quante grandi aree urbane ci sono, quanta permeabilità alla circolazioni di merci e persone dall’esterno, quanta mobilità interna fra le zone, e via elencando.

Ma in un paese avvelenato da una inveterata abitudine alla polemica gretta, in cui ogni cosa diventa un’occasione per azzannarsi reciprocamente alla gola, diventa molto complicato gestire la situazione. Ci si consenta di richiamare l’attenzione su un altro punto: la difficoltà di ricorrere ai normali strumenti redistributivi, cioè la tassazione. Se ragionassimo in astratto, sarebbe logico che a fronte dei sacrifici per necessità fatti ricadere su alcune categorie, di fronte al crescere del disagio sociale, si chiedesse a chi non è toccato o toccato solo in parte di accettare di devolvere parte della sua condizione più garantita a sostegno degli altri. Ovviamente nessun governante pensa, neppure lontanamente, di ricorrere a questo strumento, perché sa benissimo che non verrebbe accettato. Non solo per ragioni di egoismo (che pure esistono), ma per ragioni oggettive: chi paga le tasse è già spremuto ben bene e non si può chiedergli di più; chi ha redditi dal decente in su mantiene già col welfare familiare una parte almeno di chi è in difficoltà; in generale c’è il sospetto (in più casi non infondato) che quanto rastrellato con una tassazione di emergenza andrebbe non solo a soggetti vittime di una situazione, ma anche a soggetti che in passato hanno lucrato e bene su situazioni che consentivano privilegi, elusioni fiscali se non addirittura evasioni.

Abbiamo cercato di analizzare questi scenari per spiegare perché tutto in questo momento è maledettamente complicato e genera una situazione che è arduo governare. Sono situazioni che, dietro le quinte, sono ben presenti alla maggior parte degli attori di questa fase politica, dal presidente Mattarella in giù. Bisogna tenerne conto, evitando di restarne prigionieri, se, come tutti riconoscono, non si tratta affatto di arrangiarsi a “passare la nottata”, ma di affrontare un periodo non breve di lotta col virus e certamente lungo di ricostruzione sulle macerie che questo ci lascerà in eredità.


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