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L'Istituto Spallanzani di Roma

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Undici mesi dopo il Covid gli anticorpi neutralizzanti sono ancora presenti nell’organismo umano a un livello sufficiente a garantire la copertura da una possibile, nuova, infezione da Coronavirus. È quanto emerge da uno studio realizzato dal laboratorio di virologia dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, diretto da Maria Rosaria Capobianchi, da poco pubblicato sulla rivista Viruses. 

LA RICERCA

Tra febbraio 2020 e gennaio 2021 i ricercatori del laboratorio di virologia hanno analizzato 763 campioni di siero da 662 pazienti Covid-19 – prelevati durante il ricovero all’Inmi “Lazzaro Spallanzani” o dopo il superamento dell’infezione – nel corso dei controlli di follow-up o degli screening per potenziali donazioni di plasma immune.

Questi campioni sono stati successivamente sottoposti a sieroneutralizzazione, una tecnica virologica classica con la quale si verifica la capacità dei campioni ematici di neutralizzare il virus vivo, e che rappresenta il gold standard per la determinazione dell’efficacia protettiva degli anticorpi, essendo più precisa e affidabile della tecnica degli pseudovirus alla quale molti gruppi di ricerca oggi ricorrono, soprattutto quelli che non dispongono di laboratori di biosicurezza quali quelli presenti presso l’Inmi.

Dallo studio è innanzitutto emerso che i livelli (o titoli) di anticorpi neutralizzanti sono più elevati nelle persone con età superiore ai 60 anni, e tanto più elevati quanto più severi sono stati i sintomi respiratori manifestati durante la malattia.

I livelli più elevati sono stati raggiunti dai pazienti che manifestavano la cosiddetta Ards (Acute respiratory distress syndrome) con un rapporto tra la pressione dell’ossigeno nel sangue arterioso e la percentuale dell’ossigeno inspirata dal paziente inferiore a 200 mmhg.

L’aspetto più rilevante della ricerca è stata tuttavia la conferma che la maggior parte dei pazienti seguiti per almeno sei mesi e per un massimo di undici mesi ha mantenuto un livello consistente di anticorpi neutralizzanti.     

Nel 60 per cento circa dei casi seguiti gli anticorpi neutralizzanti hanno raggiunto il massimo tra uno e due mesi dopo l’infezione, sono calati in modo lieve tra i due e i tre mesi, e successivamente sono rimasti stabili sino a undici mesi dopo l’infezione.

Nel 24% dei casi le difese immunitarie dell’organismo hanno manifestato un trend di discesa continua, senza tuttavia arrivare mai al livello di non essere rilevabili.

Nel 15% circa dei casi analizzati, infine, i neutralizzanti hanno evidenziato un trend opposto, di incremento nel corso del periodo osservato.

LE CONSEGUENZE PRATICHE

I dati che emergono dalla ricerca comportano importanti conseguenze pratiche: i ricercatori del nosocomio romano hanno infatti sviluppato un algoritmo per lo screening dei donatori di plasma convalescente, che ha permesso di ridurre il numero di campioni sottoposti a test di neutralizzazione, e quindi il carico di lavoro del laboratorio, senza una perdita significativa di donazioni idonee.

Da un punto di vista epidemiologico, inoltre, i risultati dello studio sembrano fornire supporto all’ipotesi che la durata della protezione conferita dall’infezione naturale e dai vaccini possa andare oltre gli otto-dieci mesi che sino a oggi erano stati ipotizzati dalla letteratura sull’argomento.

«La sieroneutralizzazione, anche se complessa e impegnativa in termini di tempo richiesto e competenze degli operatori, rimane lo strumento di riferimento per la valutazione dell’immunità anticorpo-mediata dopo l’infezione da Sars-Cov2» hanno spiegato Giulia Matusali e Francesca Colavita, due delle autrici dello studio.

«Utilizzando algoritmi di test intelligenti – hanno aggiunto – siamo riusciti a ottimizzare il flusso di lavoro del laboratorio per monitorare la protezione anticorpo-mediata nei pazienti Covid19, nei donatori di plasma e negli individui vaccinati».

Proprio sul fronte vaccini, sempre allo Spallanzani a breve partirà una sperimentazione per verificare la possibilità di utilizzare, come richiamo, un siero diverso da quello somministrato con la prima dose.

Il test, in particolare, si rivolge a 600 volontari già trattati con AstraZeneca, ai quali verranno inoculati vaccini di diverse marche: Pfizer, Moderna e anche Sputnik V.

«Partiremo con una sperimentazione che avrà due direttrici – ha detto il direttore sanitario Francesco Vaia – quella di coprire le varianti e quella di combinare diversi vaccini. Uno studio per andare incontro alle preoccupazioni di chi ha fatto la prima dose con AstraZeneca che comunque, ribadisco, è un vaccino sicuro ed efficace».


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