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Senza pretendere di risalire al dibattito politico-culturale e alle ragioni pratiche che indussero i Padri Costituenti  ad introdurre un livello istituzionale regionale dotato di potere legislativo sulle materie di competenza e su quelle ad esso delegate dallo Stato, in Italia le Regioni sono un dono dell’autunno caldo del 1969 che determinò – come risposta al ‘’nuovo che avanza’’ – lo Statuto dei lavoratori e il completamento dell’assetto statuale in chiave di autonomia politica e non solo di decentramento amministrativo come erano stati nella storia precedente le Province e i Comuni.

Fin dalla loro nascita garantirono una maggiore distribuzione del potere politico, perché a livello regionale non vi erano problemi per l’accesso al potere dello stesso Pci oggetto, sul piano nazionale, di una conventio ad excludendum.

L’avvio dell’esperienza venne inaugurata da importanti figure politiche come il comunista Guido Fanti in Emilia Romagna e il democristiano Piero Bassetti in Lombardia e accompagnata da un ampio fervore di studi di diritto amministrativo quando vennero varate le leggi delegate per l’attribuzione delle competenze, dei relativi organici e delle risorse.

Ma il momento di maggior gloria delle Regioni fu determinato da un contagio politico: l’emergere di una ‘’questione settentrionale’’ sollevata, con inatteso successo elettorale, di alcune Leghe sorte tra le nebbie della pianura padana, le cui popolazione erano sensibili all’accusa – un po’ sempliciotta ma non senza fondamento – ‘’siamo stanchi di lavorare per mantenere Roma ladrona e i terroni. Ce ne andiamo per conto nostro’’.

La minaccia della scissione (vi furono anche alcune mascherate) fu presa sul serio.  Fino a quando non venne sdoganata da Silvio Berlusconi che convinse Umberto Bossi ormai divenuto (dopo il ‘’tradimento’’ del 1994) suo alleato stabile ad accontentarsi del ‘’federalismo’’.

Il senatur fu così messo in grado (un po’ come aveva fatto il Pci nell’immediato dopoguerra) di convincere la base che si trattava di un primo passo verso la secessione. L’Italia però è uno strano Paese in cui le forze appartenenti al ‘’sistema’’ cercano di incorporare e assimilare le istanze dei movimenti ‘’antisistema’’ per rubacchiare loro un po’ del consenso che vanno raccogliendo.

È stato così con l’inchiesta di ‘’Mani pulite’’, sostenuta ed alimentata dalla potenza di fuoco televisiva di Silvio Berlusconi, dalla mobilitazione dei Ds (come diceva Winston Churchill c’è sempre qualcuno che nutre il coccodrillo nella speranza di essere mangiato per ultimo) e da tutta la c.d. stampa indipendente (di proprietà di centri di potere economico).

Col federalismo, poi, bastò la parola. Tanto che l’unica riforma in tal senso fu attuata da un governo di centro sinistra all’inizio del nuovo secolo: la c.d. riforma del Titolo V della Costituzione che – in mancanza del coraggio di compiere scelte nette come cercò di fare, anni dopo il governo Berlusconi con la riforma Calderoli detta della devolution e bocciata in sede di referendum  confermativo – determinò la condizione di un conflitto permanente tra Stato e Regioni nell’ambito delle tante competenze concorrenti costringendo la Corte Costituzionale ad individuare i relativi confini che il legislatore aveva dimenticato di tracciare.

Ma l’errore più grave sia per lo Stato che per le Regioni è stato quello di affidare a queste ultime la gestione della sanità (non parliamo poi delle politiche attive del lavoro e della formazione), un settore che, da un lato ha condizionato i bilanci e l’attività delle Regioni, dall’altro a diviso per venti il SSN.

Nella XVI legislatura si volle completare il disegno con il c.d. federalismo fiscale con l’impegno non solo della maggioranza di centro destra, ma dello stesso Pd allora all’opposizione. Ma non se ne fece nulla perché le Regioni non vollero mai rinunciare alla copertura dello Stato.

L’ultima raffica del regionalismo venne sparata nella XVII legislatura da due Regioni amministrate dal centro destra: la Lombardia e il Veneto che sottoposero a referendum la richiesta di autonomia differenziata, con l’appoggio a sinistra dell’Emilia Romagna. Nella XVIII legislatura, l’attuale, quella richiesta ha rifatto capolino (in precedenza il governo Gentiloni aveva stipulato persino degli accordi con i sedicenti Governatori) ma è stata travolta dalla pandemia, che ha rappresentato – purtroppo – la prova generale di un’autonomia sempre annunciata e mai nata.

Al dunque forse sarebbe stato più opportuno, anziché massacrare le Province, rivedere l’assetto delle Regioni, il cui profilo è oggi o quello di uno staterello balcanico o di un Comune, neanche tanto grande. 


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